Di fronte alle risultanze del supplemento d’istruttoria disposto dal giudice nel corso del processo, l’assoluzione di Albero Stasi era nell’aria. Le contraddizioni emerse nei confronti dell’impalcatura accusatoria erano risultate, infatti, talmente vistose, da rendere, ragionevolmente, improponibile l’idea di una loro tenuta.
Il punto, tuttavia, è domandarsi perché si è arrivati a una tale sconcertante situazione processuale. Vediamo, innanzitutto, di elencare i profili sui quali si reggeva l’accusa e i motivi in forza dei quali essi si sono rilevati inidonei a sostenerla fino in fondo: il tema delle scarpe, quello del Dna della vittima sui pedali della bicicletta dell’imputato, l’impronta sul portasapone, l’alibi del computer, il movente, l’arma del delitto. A non convincere gli investigatori erano state, all’inizio, le scarpe immacolate di Alberto Stasi, che, secondo la versione raccontata dal ragazzo, avrebbero dovuto, ragionevolmente, essersi macchiate al momento della scoperta del corpo privo di vita di Chiara Poggi. Poco dopo, la prospettiva accusatoria si era rafforzata a causa dell’asserito ritrovamento del Dna della vittima sui pedali della bici. Entrambi questi profili d’accusa non hanno tuttavia retto alle perizie successive: gli esperti super partes hanno scritto che non era possibile precisare la natura del materiale organico di Chiara presente sui pedali e, quanto alla mancanza di macchie di sangue sulle scarpe di Alberto, essi hanno osservato che le suole erano idrorepellenti e ben potrebbero essersi ripulite con il camminare successivo.
L’impronta di Alberto mista al Dna della vittima trovata sull’erogatore del sapone liquido, considerata prova dall’accusa, è stata agevolmente smontata dai periti nominati dal giudice: la spiegazione più ragionevole, essi hanno rilevato, è che «i due abbiano toccato l’oggetto in tempi e per un numero di volte sconosciute», una spiegazione che «rende il dato del tutto irrilevante al fine della costituzione di una prova scientifica».
Clamoroso è stato, d’altronde, il profilo relativo al computer. Alberto Stasi ha sempre sostenuto di avere lavorato, al computer, nella stesura della sua tesi di laurea l’intera mattina in cui Chiara è stata assassinata: un vero e proprio alibi, se fosse stato vero. Questa affermazione non è stata tuttavia mai creduta dagli investigatori. Ad agosto scorso la perizia informatica disposta dal giudice ha peraltro dimostrato che l’imputato ha acceso il suo computer alle 9,35, che dalle 9,36 alle 12,20 ha salvato in continuazione il file e che le tracce di questi passaggi erano state cancellate da accessi impropri fatti dai carabinieri nel corso delle indagini. Quanto all’arma del delitto, variamente ipotizzata nel corso del processo, essa non è stata, in realtà, mai individuata. Quanto al movente, identificato dall’accusa nella circostanza che Chiara potrebbe avere scoperto qualcosa di disdicevole sul computer di Alberto, esso si è rivelato, nel corso del processo, nulla più che una supposizione.
Di fronte a questo elenco di indizi sfilacciati, la soluzione ampiamente prevedibile del processo era l’assoluzione dell’imputato. E così è stato. Una soluzione per molti aspetti sconcertante. Come è possibile, si domanderà infatti la gente, che dopo due anni e mezzo di indagine e di processo si arrivi a non fare nessuna giustizia? Come è possibile che una uccisione orrenda di una giovane ragazza rimanga senza causa e senza spiegazione? Come è possibile che sulla base di indizi ritenuti sufficienti da un ufficio del pubblico ministero un ragazzo venga rinviato a giudizio e che poi si scopra che, addirittura, il suo alibi era stato inopinatamente cancellato per imperizia dagli investigatori?
È possibile, rispondo, nel nostro modo sovente disastrato di fare giustizia. Ed infatti è accaduto. Ma forse, a questo punto, occorrerà che qualcuno dotato di autorità assuma qualche provvedimento. Non è infatti ammissibile che vi siano consulenti tecnici che si spendano sull’efficacia probatoria di determinate impronte di Dna, e che vengano clamorosamente smentiti da altri periti. Non è ammissibile che si discetti per mesi sulle mancate impronte ritrovate sulle scarpe dell’imputato, e che poi emerga che, forse, la spiegazione poteva essere reperita nella particolare composizione chimica delle suole. Non è, soprattutto, ammissibile che si continui a rifiutare, per mesi, che l’imputato possa essersi trattenuto al computer l’intera mattinata in cui si è consumato l’omicidio, per scoprire poi che egli aveva, effettivamente, lavorato dalle 9,36 alle 12,20 e che le tracce di questi passaggi erano state improvvidamente cancellate. Ne va, diciamolo chiaramente, della stessa credibilità degli uffici pubblici investigativi e peritali ai quali i magistrati dell’accusa si sono affidati nel corso delle indagini. Ne va, è doveroso soggiungere, della stessa credibilità degli uffici giudiziari interessati.
Che dire, d’altronde, del «balletto» sull’ora della morte della povera ragazza? In un primo tempo il pm aveva sostenuto che essa era stata uccisa «fra le 11 e le 11,30». Nella «requisitoria bis», di fronte ai risultati clamorosi della perizia informatica disposta dal giudice, egli ha cambiato opinione: la ragazza sarebbe morta «fra le 12,46 e le 13,26», una soluzione che non ha trovato d’accordo neppure la parte civile, che ha individuato l’ora della morte fra le 9 e le 10 del mattino.
C’è comunque un aspetto, il solo, che, nel disastro complessivo di questa drammatica vicenda giudiziaria, può essere considerato positivo: che, di fronte all’equivocità degli indizi, un giudice ha assolto, ricordandosi che «senza prova certa al di là di ogni ragionevole dubbio» nessuno, secondo i principi, nel nostro Paese può essere condannato. Altre volte, purtroppo, non è avvenuto.
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