LETTERA APERTA A ILARIA CUCCHI
Cara Ilaria, se hai letto il mio profilo in uno dei miei commenti sul tuo blog, avrai capito che io sono un ex direttore di carcere, lo sono stato fino al 31.1.2005, poi il giorno successivo ero in pensione, a 67 anni di età.
Ho diretto sette carceri come titolare e una miriade in continui servizi di missione, per quasi quarant’anni.
Ho visto l’ambiente del carcere cambiare gradualmente e le strutture e le istituzioni un po’ più rapidamente, sotto la spinta del terrorismo, mentre la drammatica arretratezza strutturale (ma non culturale) dava impulso a un piano ventennale di nuove costruzioni, ultimato agli inizi degli anni ’90.
Sono persona informata sui fatti. Ti avevo promesso un intervento più lungo, se non ci stava in un solo commento, nè era opportuno frazionarlo.
Cosa ti voglio dire, questo che segue.
Man mano che la situazione dell’ordine pubblico peggiorava, durante quello che sarebbe stato il decennio degli anni di piombo, il personale esperto e con una discreta anzianità di servizio, iniziava a sentirsi a disagio nel mutato clima sociale, si sentiva, ci sentivamo come assediati, e questa sindrome dell’assedio, dell’accerchiamento, fungeva da forza centripeta: mai più fra il personale c’è più stata tanta compattezza.
Però gli anziani andavano via, traendo profitto di una legislazione pensionistica benevola, mentre i rimpiazzi non arrivavano, non per mancanza di fondi, per mancanza di aspiranti. I corsi non riuscivano a coprire il turn-over. In questo modo si creava una grave frattura generazionale, un salto di più di un lustro, di più di una generazione.
Peggio, mancavano gli anziani che insegnavano il mestiere ai giovani, in particolare i famosi appuntati.
Ciò accadeva non solo fra il personale di custodia (allora agenti di custodia, un corpo militare), ma anche nell’ambito dei ruoli direttivi.
Poi il terrorismo fu sconfitto, alla metà degli anni ’80 e alla fine dell’anno 1990 il corpo degli agenti di custodia fu smilitarizzato, anzi soppresso e sostituito dalla polizia penitenziaria.
È stato un bene? È stato un male? Certo è che di pari passo alla creazione di un corpo di polizia ad ordinamento civile pendeva il volo la sindacalizzazione del personale di custodia (abbiamo visto il segretario generale del S.A.P.PE. Donato Capece giurare che il personale di polizia penitenziaria non era da considerarsi autore delle violenze, abbiamo visto l’indagine ispettiva amministrativa interna, condotta dal direttore generale detenuti e osservazione cons. Sebastiano Ardita smentire questa affermazione).
Anche qui: è stato un bene? È stato un male.
È bene chiarire. Smilitarizzazione, sindacalizzazione di per sé sono strumenti di democrazia e di tutela, ma presuppongono un tessuto organizzativo solido.
Ebbene, lo spartiacque temporale fra il vecchio e il nuovo va individuato nell’assunzione della gestione delle carceri da un P.M. già celebre quando nel 1981 ebbe questo incarico: Niccolò Amato, che vi restò fino al 1993, quando fu dimissionato dal Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso.
Ho trovato una descrizione del personaggio nel blog di Luigi Manconi e Patrizio Gonnella, Innocenti Evasioni:
“Nicolò Amato e il carcere possibile
di Patrizio Gonnella
Nicolò Amato era molto amato in quei luoghi che oggi si chiamano Dap. Si dice che lo fosse anche dalle donne del Dap. Allora il Dap si chiamava Direzione generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. All’età di cinquant’anni ne divenne il capo, indiscusso. Era il 1983 (Bettino Craxi era Presidente del Consiglio). Amato prima aveva fatto il magistrato alla Procura della Repubblica di Roma: portò avanti le inchieste sui Nuclei armati proletari, su Mehmet Alì Agca per l'attentato a Giovanni Paolo II e sulle Brigate Rosse per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Nei suoi anni all’amministrazione penitenziaria parlava di carcere della speranza e fu, a suo modo, un vero innovatore. Per certi versi, un autentico e coraggioso riformatore. Scrisse un libro che si studiava nelle università: “Diritto, delitto, carcere”. Così Miriam Mafai titolava un suo articolo del 17 marzo 1988: “Il sogno di Nicolò Amato: carcere solo per pochi e tante pene alternative.” Scriveva la Mafai: “Insomma nei nostri ministeri lavorano uomini come Di Palma, direttore generale del ministero dei Lavori pubblici, oggi latitante, e uomini come Nicolò Amato, direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena. Una contraddizione non da poco che ieri qualcuno ha rilevato maliziosamente, nel corso della affollata assemblea di uomini politici, giornalisti, alti funzionari, che si era riunita per discutere dell' ultimo libro di Amato con il quale si sostiene appunto con ricchezza di argomentazione giuridica e umana passione civile la necessità (non l' utopia) di un carcere comminato solo per pochissimi gravi reati e comunque, anche in questo caso, trasformato e reso più umano e civile… Nicolò Amato, che per tanti anni ha ricoperto il ruolo di pubblico ministero a Roma, non mi sembra mosso da sentimenti di questo tipo, ma anzi da una rigorosa concezione della giustizia e del suo ruolo. Nella sua carriera, egli ha chiesto più di un ergastolo. E' ben vero, come spesso si dice, che tutti i giudici dovrebbero sapere cos' è il carcere prima di condannare qualcuno ad entrarvi. Ma non mi sembra lecito pensare che, nel sostenere le ragioni di questa grande riforma penale e penitenziaria, Amato sia mosso solo dalla conoscenza più ravvicinata del carcere che gli deriva dal suo attuale ruolo. C'è invece, nella sua richiesta di abolire il vecchio carcere e d'inventarne uno nuovo basato sulle regole del diritto, una concezione alta della giustizia che, come diceva ieri lo stesso Amato a conclusione del dibattito, sembra madre di due figli, uno legittimo: il processo, e uno illegittimo: il carcere. Del primo già orgogliosa, del secondo si vergogna un po’. Sul primo accende i riflettori, sul secondo fa scendere il silenzio. Ecco Nicolò Amato, prima giudice e pubblico ministero e oggi direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena, vuole rompere questo silenzio, accendere i riflettori anche su questa zona buia della società, perché anche il carcere, quando necessario e nei modi in cui sia necessario, appaia a pieno titolo figlio legittimo della giustizia.” Poi scoppiò Tangentopoli. Craxi fu travolto. Nicolò Amato fu sostituito da alcuni personaggi minori. Promoveatur ut amoveatur. Fu mandato a Strasburgo a far parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Si offese e indignò così tanto che non partecipò neanche a una seduta del Comitato né fece una visita ispettiva. Iniziò a fare l’avvocato, sempre amico fedele dei socialisti. “Roma, il PSI scende in campo capolista sarà Nicolò Amato”. Così titolava il Corriere della Sera nel settembre del 1993. Il 12 febbraio del 1994 accompagna Craxi in Procura a presentare i dossier su Occhetto e D’Alema. Due mesi dopo, alle elezioni politiche, vince Silvio Berlusconi. Tra il 1994 e il 1998 diventa il difensore di Giuseppe Madonia. Il 7 maggio del 1998 aderisce ad Alleanza Nazionale: “Le risposte programmatiche di An ai problemi del Paese mi sembrano le più moderne ed efficaci”. Qualcuno dice che poi sia anche passato dalle parti dell’Udeur, ma non sono in grado di confermare la notizia. La storia di Amato è così riassumibile: dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io.”.
Per la mia personale esperienza posso dire che Niccolò Amato non era un personaggio simpatico.
In un altro blog (Archivio ‘900) è così descritto: “E' nato a Messina nel 1933. Ha lavorato quasi sempre alla procura della Repubblica di Roma, partecipando a molti fra i più importanti e clamorosi processi di questi anni: contro i Nuclei armati proletari, contro Mehmet Alì Agca per l'attentato a Giovanni Paolo II e contro le Brigate Rosse per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Dal 1983 è direttore generale per gli istituti di prevenzione e pena e in tale qualità ha dato all'Amministrazione penitenziaria un impulso fortemente innovatore, determinando una straordinaria applicazione delle riforme del 1975 e del 1986 ed una generale e profonda trasformazione dell'universo carcerario nel senso di quello che egli ha più volte chiamato un carcere della speranza.” .
È stato, dunque, un accanito e illuminato riformatore, che ha traghettato il carcere nell’era moderna, non senza errori e sottovalutazioni.
Il primo errore è stato quello di cedere alla tendenza alla marginalizzazione dei direttori di lungo corso, accentuandosi così gli effetti della istituzione della dirigenza pubblica del 1972, che in una norma transitoria spianava la strada allo “svecchiamento” dei ruoli mediante l’attribuzione di sette anni di maggiore anzianità contributiva e pensionistica a chi fosse andato in pensione in un arco di tempo definito: un vero e proprio ricatto.
Ecco, i direttori residuali furono ‘convinti’ a cedere il passo ai nuovi, nell’erroneo convincimento che non avessero nulla da insegnare, almeno come dato di esperienza ai nuovi.
In questo modo furono convinti ad andarsene vecchi catorci ma anche funzionari apicali di grande validità, il che determinò quella frattura generazionale che si è osservata, per altri motivi, nel personale di custodia.
L’altro errore fu di non avere fatto rimodulare i progetti dei nuovi istituti penitenziari sulla base di studi di settori e di tendenza della criminalità e della conseguente crescita della popolazione detenuta, destinandosi ampi spazi alle attività in comune (molti di essi sono stati in seguito trasformati in sezioni detentive), mentre le celle detentive furono di 12 mq. circa con annesso servizio igienico separato con sola acqua corrente fredda e privo di doccia.
Inoltre, questi istituti erano fatti in serie, senza differenziarli a seconda della loro destinazione (casa circondariale, casa di reclusione ecc.). Ampi corridoi, celle piccole, aree sterrate incolte, campi sportivi sterrati, palestre prive di istruttori, locali cinema-teatro praticamente inutilizzati, laboratori per il lavoro interno privi di criterio.
Un grande capo è tale non solo per le sue qualità personali, ma anche per quelli del suo staff, senza del quale grandi intuizioni sono di difficile realizzazione pratica.
Il grande merito di Niccolò Amato è quello di avere tentato, con relativo successo, di umanizzare la pena nell’ambito dell’esecuzione penale e di avere trasformato il corpo militare degli agenti di custodia nel corpo smilitarizzato di polizia penitenziaria, riforma incompiuta per la mancata previsione di un ruolo direttivo dello stesso, realizzato molti anni dopo.
Dopo Niccolò Amato una lunga teoria di capi del D.A.P. dei quali il più significativo è stato Gian Carlo Caselli, che vi restò un anno e mezzo e al quale va il merito di avere fatto riformulare la norma di attuazione dell’ordinamento penitenziario del 1975.
Fra le novità la previsione dell’acqua calda sanitaria corrente in ogni cella, di difficile realizzazione per gli,alti costi e la penuria dei bilanci della Giustizia.
Qual è la ragione di questo lungo excursus della storia moderna delle carceri?
È questa: l’incertezza organizzativa conseguita all’allontanamento di Niccolò Amato, il cui naturale corollario è stato lo scollamento dell’organizzazione complessiva della gestione delle carceri a livello centrale regionale e periferico, la perdita di forza persuasiva da parte dei vertici centrali e regionali, l’affievolimento dei controlli di gestione e di qualità, in definitiva lo scollamento della catena di comando.
Nessuno più controllava ciò che accadeva al centro, a livello regionale e periferico se non allorquando venivano in essere patologie del sistema, mentre la sua fisiologia (contenimento dei casi patologici in un ambito riconosciuto come fisiologico) non veniva in alcun modo assicurata.
La cronaca ha registrato di recente il caso in cui un comandante di reparto di un istituto del nord nel rimproverare un sottoposto per avere malmenato un extra-comunitario non lo faceva perché reato ma perché fatto in modo maldestro (“queste cose non si fanno in sezione ma di sotto”: incredibile!).
Allora mi viene fatto di chiedere: ma il direttore del carcere, la figura su cui si incardina tutto il sistema legislativo penitenziario (peraltro da sempre) dov’era, dov’è, come mai non controlla ?
La naturale evoluzione da questo rifuggire dalle responsabilità (che non riguarda il solo direttore del carcere ma anche i provveditori regionali, i direttori generali centrali, il capo del dipartimento) è l’abbandono dei criteri di sicurezza nelle mani di comandanti di reparto inadatti e di personale di polizia penitenziaria privo di uno standard minimo di controlli.
Ciò ha comportato una crescita esponenziale della violenza, meglio dell’uso illegittimo della forza, nel carcere in particolare e nelle sezioni esterne al carcere di tipo detentivo (camere di sicurezza di polizia e carabinieri, celle presso gli uffici giudiziari, reparto detentivi presso ospedali civili).
Il caso del giovane, fragile e indifeso Stefano Cucchi è un caso tipico di un sistema malato. Ciò che Stefano Cucchi era nella vita libera non ha alcuna rilevanza sul come doveva essere detenuto dopo l’arresto ed è questa coscienza, questa consapevolezza che sembra essere stata smarrita oggi, che un soggetto detenuto, imputato o condannato o internato, è prima di tutto un essere umano, per quanto repellente possa sembrare e magari, se si scava in profondità, non essere affatto, e va quindi trattato da essere umano, che da imputato non sta in chi lo tiene in detenzione giudicare e da condannato in esecuzione di pena detentiva è dovere di chi lo detiene di occuparsi e preoccuparsi del suo stato di salute, fisica e mentale, e di propiziare un percorso di recupero sociale sempre molto difficile e problematico, senza indulgere in operazioni di sola facciata, ma adottando iniziative concrete di supporto e di proposizione.
Ho diretto sette carceri come titolare e una miriade in continui servizi di missione, per quasi quarant’anni.
Ho visto l’ambiente del carcere cambiare gradualmente e le strutture e le istituzioni un po’ più rapidamente, sotto la spinta del terrorismo, mentre la drammatica arretratezza strutturale (ma non culturale) dava impulso a un piano ventennale di nuove costruzioni, ultimato agli inizi degli anni ’90.
Sono persona informata sui fatti. Ti avevo promesso un intervento più lungo, se non ci stava in un solo commento, nè era opportuno frazionarlo.
Cosa ti voglio dire, questo che segue.
Man mano che la situazione dell’ordine pubblico peggiorava, durante quello che sarebbe stato il decennio degli anni di piombo, il personale esperto e con una discreta anzianità di servizio, iniziava a sentirsi a disagio nel mutato clima sociale, si sentiva, ci sentivamo come assediati, e questa sindrome dell’assedio, dell’accerchiamento, fungeva da forza centripeta: mai più fra il personale c’è più stata tanta compattezza.
Però gli anziani andavano via, traendo profitto di una legislazione pensionistica benevola, mentre i rimpiazzi non arrivavano, non per mancanza di fondi, per mancanza di aspiranti. I corsi non riuscivano a coprire il turn-over. In questo modo si creava una grave frattura generazionale, un salto di più di un lustro, di più di una generazione.
Peggio, mancavano gli anziani che insegnavano il mestiere ai giovani, in particolare i famosi appuntati.
Ciò accadeva non solo fra il personale di custodia (allora agenti di custodia, un corpo militare), ma anche nell’ambito dei ruoli direttivi.
Poi il terrorismo fu sconfitto, alla metà degli anni ’80 e alla fine dell’anno 1990 il corpo degli agenti di custodia fu smilitarizzato, anzi soppresso e sostituito dalla polizia penitenziaria.
È stato un bene? È stato un male? Certo è che di pari passo alla creazione di un corpo di polizia ad ordinamento civile pendeva il volo la sindacalizzazione del personale di custodia (abbiamo visto il segretario generale del S.A.P.PE. Donato Capece giurare che il personale di polizia penitenziaria non era da considerarsi autore delle violenze, abbiamo visto l’indagine ispettiva amministrativa interna, condotta dal direttore generale detenuti e osservazione cons. Sebastiano Ardita smentire questa affermazione).
Anche qui: è stato un bene? È stato un male.
È bene chiarire. Smilitarizzazione, sindacalizzazione di per sé sono strumenti di democrazia e di tutela, ma presuppongono un tessuto organizzativo solido.
Ebbene, lo spartiacque temporale fra il vecchio e il nuovo va individuato nell’assunzione della gestione delle carceri da un P.M. già celebre quando nel 1981 ebbe questo incarico: Niccolò Amato, che vi restò fino al 1993, quando fu dimissionato dal Ministro di Grazia e Giustizia Giovanni Conso.
Ho trovato una descrizione del personaggio nel blog di Luigi Manconi e Patrizio Gonnella, Innocenti Evasioni:
“Nicolò Amato e il carcere possibile
di Patrizio Gonnella
Nicolò Amato era molto amato in quei luoghi che oggi si chiamano Dap. Si dice che lo fosse anche dalle donne del Dap. Allora il Dap si chiamava Direzione generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. All’età di cinquant’anni ne divenne il capo, indiscusso. Era il 1983 (Bettino Craxi era Presidente del Consiglio). Amato prima aveva fatto il magistrato alla Procura della Repubblica di Roma: portò avanti le inchieste sui Nuclei armati proletari, su Mehmet Alì Agca per l'attentato a Giovanni Paolo II e sulle Brigate Rosse per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Nei suoi anni all’amministrazione penitenziaria parlava di carcere della speranza e fu, a suo modo, un vero innovatore. Per certi versi, un autentico e coraggioso riformatore. Scrisse un libro che si studiava nelle università: “Diritto, delitto, carcere”. Così Miriam Mafai titolava un suo articolo del 17 marzo 1988: “Il sogno di Nicolò Amato: carcere solo per pochi e tante pene alternative.” Scriveva la Mafai: “Insomma nei nostri ministeri lavorano uomini come Di Palma, direttore generale del ministero dei Lavori pubblici, oggi latitante, e uomini come Nicolò Amato, direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena. Una contraddizione non da poco che ieri qualcuno ha rilevato maliziosamente, nel corso della affollata assemblea di uomini politici, giornalisti, alti funzionari, che si era riunita per discutere dell' ultimo libro di Amato con il quale si sostiene appunto con ricchezza di argomentazione giuridica e umana passione civile la necessità (non l' utopia) di un carcere comminato solo per pochissimi gravi reati e comunque, anche in questo caso, trasformato e reso più umano e civile… Nicolò Amato, che per tanti anni ha ricoperto il ruolo di pubblico ministero a Roma, non mi sembra mosso da sentimenti di questo tipo, ma anzi da una rigorosa concezione della giustizia e del suo ruolo. Nella sua carriera, egli ha chiesto più di un ergastolo. E' ben vero, come spesso si dice, che tutti i giudici dovrebbero sapere cos' è il carcere prima di condannare qualcuno ad entrarvi. Ma non mi sembra lecito pensare che, nel sostenere le ragioni di questa grande riforma penale e penitenziaria, Amato sia mosso solo dalla conoscenza più ravvicinata del carcere che gli deriva dal suo attuale ruolo. C'è invece, nella sua richiesta di abolire il vecchio carcere e d'inventarne uno nuovo basato sulle regole del diritto, una concezione alta della giustizia che, come diceva ieri lo stesso Amato a conclusione del dibattito, sembra madre di due figli, uno legittimo: il processo, e uno illegittimo: il carcere. Del primo già orgogliosa, del secondo si vergogna un po’. Sul primo accende i riflettori, sul secondo fa scendere il silenzio. Ecco Nicolò Amato, prima giudice e pubblico ministero e oggi direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena, vuole rompere questo silenzio, accendere i riflettori anche su questa zona buia della società, perché anche il carcere, quando necessario e nei modi in cui sia necessario, appaia a pieno titolo figlio legittimo della giustizia.” Poi scoppiò Tangentopoli. Craxi fu travolto. Nicolò Amato fu sostituito da alcuni personaggi minori. Promoveatur ut amoveatur. Fu mandato a Strasburgo a far parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Si offese e indignò così tanto che non partecipò neanche a una seduta del Comitato né fece una visita ispettiva. Iniziò a fare l’avvocato, sempre amico fedele dei socialisti. “Roma, il PSI scende in campo capolista sarà Nicolò Amato”. Così titolava il Corriere della Sera nel settembre del 1993. Il 12 febbraio del 1994 accompagna Craxi in Procura a presentare i dossier su Occhetto e D’Alema. Due mesi dopo, alle elezioni politiche, vince Silvio Berlusconi. Tra il 1994 e il 1998 diventa il difensore di Giuseppe Madonia. Il 7 maggio del 1998 aderisce ad Alleanza Nazionale: “Le risposte programmatiche di An ai problemi del Paese mi sembrano le più moderne ed efficaci”. Qualcuno dice che poi sia anche passato dalle parti dell’Udeur, ma non sono in grado di confermare la notizia. La storia di Amato è così riassumibile: dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io.”.
Per la mia personale esperienza posso dire che Niccolò Amato non era un personaggio simpatico.
In un altro blog (Archivio ‘900) è così descritto: “E' nato a Messina nel 1933. Ha lavorato quasi sempre alla procura della Repubblica di Roma, partecipando a molti fra i più importanti e clamorosi processi di questi anni: contro i Nuclei armati proletari, contro Mehmet Alì Agca per l'attentato a Giovanni Paolo II e contro le Brigate Rosse per il sequestro e l'omicidio di Aldo Moro. Dal 1983 è direttore generale per gli istituti di prevenzione e pena e in tale qualità ha dato all'Amministrazione penitenziaria un impulso fortemente innovatore, determinando una straordinaria applicazione delle riforme del 1975 e del 1986 ed una generale e profonda trasformazione dell'universo carcerario nel senso di quello che egli ha più volte chiamato un carcere della speranza.” .
È stato, dunque, un accanito e illuminato riformatore, che ha traghettato il carcere nell’era moderna, non senza errori e sottovalutazioni.
Il primo errore è stato quello di cedere alla tendenza alla marginalizzazione dei direttori di lungo corso, accentuandosi così gli effetti della istituzione della dirigenza pubblica del 1972, che in una norma transitoria spianava la strada allo “svecchiamento” dei ruoli mediante l’attribuzione di sette anni di maggiore anzianità contributiva e pensionistica a chi fosse andato in pensione in un arco di tempo definito: un vero e proprio ricatto.
Ecco, i direttori residuali furono ‘convinti’ a cedere il passo ai nuovi, nell’erroneo convincimento che non avessero nulla da insegnare, almeno come dato di esperienza ai nuovi.
In questo modo furono convinti ad andarsene vecchi catorci ma anche funzionari apicali di grande validità, il che determinò quella frattura generazionale che si è osservata, per altri motivi, nel personale di custodia.
L’altro errore fu di non avere fatto rimodulare i progetti dei nuovi istituti penitenziari sulla base di studi di settori e di tendenza della criminalità e della conseguente crescita della popolazione detenuta, destinandosi ampi spazi alle attività in comune (molti di essi sono stati in seguito trasformati in sezioni detentive), mentre le celle detentive furono di 12 mq. circa con annesso servizio igienico separato con sola acqua corrente fredda e privo di doccia.
Inoltre, questi istituti erano fatti in serie, senza differenziarli a seconda della loro destinazione (casa circondariale, casa di reclusione ecc.). Ampi corridoi, celle piccole, aree sterrate incolte, campi sportivi sterrati, palestre prive di istruttori, locali cinema-teatro praticamente inutilizzati, laboratori per il lavoro interno privi di criterio.
Un grande capo è tale non solo per le sue qualità personali, ma anche per quelli del suo staff, senza del quale grandi intuizioni sono di difficile realizzazione pratica.
Il grande merito di Niccolò Amato è quello di avere tentato, con relativo successo, di umanizzare la pena nell’ambito dell’esecuzione penale e di avere trasformato il corpo militare degli agenti di custodia nel corpo smilitarizzato di polizia penitenziaria, riforma incompiuta per la mancata previsione di un ruolo direttivo dello stesso, realizzato molti anni dopo.
Dopo Niccolò Amato una lunga teoria di capi del D.A.P. dei quali il più significativo è stato Gian Carlo Caselli, che vi restò un anno e mezzo e al quale va il merito di avere fatto riformulare la norma di attuazione dell’ordinamento penitenziario del 1975.
Fra le novità la previsione dell’acqua calda sanitaria corrente in ogni cella, di difficile realizzazione per gli,alti costi e la penuria dei bilanci della Giustizia.
Qual è la ragione di questo lungo excursus della storia moderna delle carceri?
È questa: l’incertezza organizzativa conseguita all’allontanamento di Niccolò Amato, il cui naturale corollario è stato lo scollamento dell’organizzazione complessiva della gestione delle carceri a livello centrale regionale e periferico, la perdita di forza persuasiva da parte dei vertici centrali e regionali, l’affievolimento dei controlli di gestione e di qualità, in definitiva lo scollamento della catena di comando.
Nessuno più controllava ciò che accadeva al centro, a livello regionale e periferico se non allorquando venivano in essere patologie del sistema, mentre la sua fisiologia (contenimento dei casi patologici in un ambito riconosciuto come fisiologico) non veniva in alcun modo assicurata.
La cronaca ha registrato di recente il caso in cui un comandante di reparto di un istituto del nord nel rimproverare un sottoposto per avere malmenato un extra-comunitario non lo faceva perché reato ma perché fatto in modo maldestro (“queste cose non si fanno in sezione ma di sotto”: incredibile!).
Allora mi viene fatto di chiedere: ma il direttore del carcere, la figura su cui si incardina tutto il sistema legislativo penitenziario (peraltro da sempre) dov’era, dov’è, come mai non controlla ?
La naturale evoluzione da questo rifuggire dalle responsabilità (che non riguarda il solo direttore del carcere ma anche i provveditori regionali, i direttori generali centrali, il capo del dipartimento) è l’abbandono dei criteri di sicurezza nelle mani di comandanti di reparto inadatti e di personale di polizia penitenziaria privo di uno standard minimo di controlli.
Ciò ha comportato una crescita esponenziale della violenza, meglio dell’uso illegittimo della forza, nel carcere in particolare e nelle sezioni esterne al carcere di tipo detentivo (camere di sicurezza di polizia e carabinieri, celle presso gli uffici giudiziari, reparto detentivi presso ospedali civili).
Il caso del giovane, fragile e indifeso Stefano Cucchi è un caso tipico di un sistema malato. Ciò che Stefano Cucchi era nella vita libera non ha alcuna rilevanza sul come doveva essere detenuto dopo l’arresto ed è questa coscienza, questa consapevolezza che sembra essere stata smarrita oggi, che un soggetto detenuto, imputato o condannato o internato, è prima di tutto un essere umano, per quanto repellente possa sembrare e magari, se si scava in profondità, non essere affatto, e va quindi trattato da essere umano, che da imputato non sta in chi lo tiene in detenzione giudicare e da condannato in esecuzione di pena detentiva è dovere di chi lo detiene di occuparsi e preoccuparsi del suo stato di salute, fisica e mentale, e di propiziare un percorso di recupero sociale sempre molto difficile e problematico, senza indulgere in operazioni di sola facciata, ma adottando iniziative concrete di supporto e di proposizione.
La conclusione della relazione dipartimentale, mentre individua le cause remote della vicenda, tragica, di Stefano Cucchi, omette di rilevare che i controlli mancavano addirittura sul carcere romano di Regina Coeli, omissione imputabile in prima battuta al provveditore regionale del Lazio e in ultima analisi sul DAP medesimo.
Se i direttori non controllano il personale dipendente, i provveditori non controllano i direttori, i direttori generali non controllano i provveditori, il capo del dipartimento non controlla i direttori generali, la catena di comando non esiste più.
Tragedie, come quella di Stefano Cucchi sono destinate a ripetersi.
Se poi si va guardare quanto guadagnano i direttori di carcere (oggi tutti dirigenti), i provveditori regionali (oggi tutti dirigenti generali), i direttori generali (magistrati e dirigenti generali) e, per finire, il capo del Dipartimento, c’è da rimanere sdegnati per la divaricazione fra quanto (poco) producono e quando guadagnano.
Tragedie, come quella di Stefano Cucchi sono destinate a ripetersi.
Se poi si va guardare quanto guadagnano i direttori di carcere (oggi tutti dirigenti), i provveditori regionali (oggi tutti dirigenti generali), i direttori generali (magistrati e dirigenti generali) e, per finire, il capo del Dipartimento, c’è da rimanere sdegnati per la divaricazione fra quanto (poco) producono e quando guadagnano.
*Ispettore Generale dell'Amministrazione penitenziaria, direttore


Nessun commento:
Posta un commento