“Sono vecchio/ sono pazzo/ sento scorrere le ore/ è il mio cuore di ragazzo”. Ogni giorno, gli stessi gesti. Sveglia, cielo, silenzio. L’ultimo piano con vista zoo, al vertice di un albergo romano dove passò i venti anni di vita definitivi, deciso a liberarsi in anticipo di condòmini, bollette, incontri inessenziali. E l’età, che avanzava senza chiedere permesso, sul suo profilo da Gianni Agnelli privo di imperio, traversato dall’ironia, come un graffio, una ruga, un altro punto di domanda cui nessuno avrebbe fornito risposta. Finalmente solo davanti a una finestra, senza dover spiegare a una moglie di passaggio che guardare fuori dal vetro, per quelli come lui, era già lavorare.
Dino Risi c’è. Molto al di là di un funerale privato, delle opinioni di tutti i critici che non ne condivisero l’insopprimibile desiderio di sperimentare, dissacrando, le curiosità nascoste di un psichiatra mancato applicato al cinema.
Disincanto e malinconia, desideri inespressi: “Dire a una ragazza incontrata in treno che il libro che sta leggendo appassionatamente l’ho scritto io” ed egocentrismo subordinato alla sorprendente fatica di se stessi: “Quando passa un mio film in tv, spengo subito”.
Una corsa salvifica: “Se non avessi fatto il regista, non so proprio dove mi sarei potuto esprimere”, iniziata per caso incontrando Alberto Lattuada in un negozio, fitta di inediti affreschi di un’Italia dimenticata troppo in fretta, e riportata alla luce da un documentario lieto, una tenue pioggia di bianchi e neri e cromatismi ingenui, commovente senza pretendere di esserlo e incisivo come una dissolvenza secca, che Risi, grande elettore delle scelte nette dalla vita alla sala di montaggio: “Qui, dottore, ci sarebbe da alleggerire il racconto”, “Tagli pure, tagli tutto”, avrebbe approvato incondizionatamente. Sufficientemente spiritoso per non infatuarsi di ruolo, immagine o funzione sociale, Dino ragionava. Caustico, cinico: “Non so se lo sono veramente ma senza dubbio stimo la categoria. Sono i più onesti, non fingono, non filtrano”, attento osservatore di marziani o mutanti, nella scia di Longanesi o Flaiano, pazzo delle donne, dei rendez-vous inefficaci: “Era una modella top/sposò un pittore pop/ che a letto fece flop”, del vaniloquio sentimentale che non conosce sfumature ma solo presunti successi da ostentare.
Fabrizio Corallo e Francesca Molteni, (Dino Risi, 4 dvd, 01 distribuzione, 32,99 euro) sono riusciti a non deprimere il coccodrillo. Nessuna aria inutilmente celebrativa, non il lampo di una esequie anticipata, solo l’esistenza che si racconta in primo piano e i ricordi che arano il bianco spazio della memoria, dalla Milano degli anni ’30 al dopoguerra, superando sorpasso dopo curva, l’educazione sentimentale di una nazione. Virzì, Verdone, Monica Bellucci, Vanzina, Umberto Eco, Kezich, Curzio Maltese, Jean Louis Trintignan, Franca Valeri, Martin Scorsese. Disomogeneità. Omaggi a episodi. “Era il più intelligente”, ripetono tutti. Rispetto. Rimpianto. Nei 64’ dell’opera (e nei preziosi extra che accompagnano l’impresa di spalancare sulla timida tracotanza di Risi, uno squarcio profondo, indelebile, rivelatorio) passa l’inchino vocale dei contemporanei. Quello dei grandi maestri stranieri che dal figlio di un’insegnante e del medico della Scala “Toscanini, da bambino, mi carezzò come un personaggio di De Amicis”, mutuarono la lezione e quello dei critici ortodossi, impegnati a descrivere un ateo convinto: “Credo si viva benissimo anche senza religione, il solo fatto che l’entità suprema si chiamasse Signore, mi dava fastidio”, uno che era passato attraverso il campo di concentramento e il manicomio (sei mesi, a Voghera), diffidente verso moralismi, bandiere, verità assolute e politica. Fotografava in anticipo, Risi, l’istantanea in dissoluzione di un paese incapace di gestire la propria felicità. L’effimero boom che indisposto a stabilizzarsi verso la società ideale, avrebbe cambiato (in peggio) costumi e mentalità. Però Risi, considerava la nostalgia un lusso da bandìre. Registrava. Intuiva. Scriveva (“benissimo”, puntualizza Marco Giusti). Copioni e poesie. Provocava, urlando (espediente estremo per non rischiare la noia) i colleghi con la tessera in tasca, il fideismo acritico nel materialismo e certi brindisi a eccessivo tasso ideologico: “Mancandogli qualcosa/ per essere un artista/ pensò bene di iscriversi/ al Partito comunista”. Un alieno.
A petto in fuori durante i ’50 (l’epopea elementare e popolare di “Poveri ma belli”, acquarello di un’Italia semplice, con tutte le possibilità a portata di mano che in Francia gli valsero l’aggettivo di dinorisienne), sulla tolda dell’amarezza solo diluita nella comicità nei ‘60 (i capolavori “Una vita difficile” e “il Sorpasso” col sogno delle strade deserte, l’incosciente arroganza di Bruno Cortona- Gassman, i primi autogrill, l’Aurelia B24 convertibile e un altro mondo possibile, prima della cementificazione, “ I mostri”, con Tognazzi padre al volante e il figlio Ricky, sullo schermo in un indimenticabile esempio di educazione ipercontemporanea al contrario: “Vedi Paoletto, tu sei intelligente buono e anche bellino ma furbo non lo sei . Ora ti dico una cosa: il mondo è tondo e chi non sa stare a galla, va a fondo. Hai capito bene? Ricordalo. (traffico, infrazioni, clacson, furberie al volante) Aspetta che passo io” e il bambino: “Papà, il semaforo è rosso” “Hai visto il vigile? No? E allora che ti frega? Fai le corna, fai le corna, bravo, così”. Ma anche il notevole, feroce, “Il Gaucho”, con Manfredi emigrato in disgrazia, Gassman impresario cialtrone in Argentina e l’addio all’aeroporto di Buenos Aires con straziante comitato di saluto orchestrato dai paisà, cesura e colpo di genio del film: “Ogni volta che parte qualcuno è un piezz’e core che se ne va”, con Manfredi pragmatico: “Ma no, vedrai che stiamo più larghi”.
Solo nel decennio successivo, dopo una sorprendente indagine anticipatoria di Tangentopoli: “In nome del popolo italiano” e l’esplorazione delle voglie represse da famiglie borghesi e pretori censori, “Vedo nudo” e i quadretti di “Sesso matto”, con Giannini e la Antonelli ninfomane in gondola: “Dai, guarda Venezia, non pensare a me” , “Di Venessia non mi frega niente, mi voglio ti” e l’ex operaio della Wertmüller, all’approccio terrorizzato con un transessuale: “Così non mi va bene, non è corretto, me ne vado, tu c’hai il ‘coso’!” e l’altro: “Borghese, conformista, frocio, fascista”, venne la riflessione sul crepuscolo. L’Oscar mancato per Profumo di Donna nel ‘74: “Cosa si prova, Risi, a sfiorare il traguardo?”. “Voglia di prendere a calci in culo un giornalista che ti sveglia alle sei del mattino per anticipartelo”, delusione trattenuta: “Mi ero preparato anche un discorsetto in inglese”, la consapevolezza che saper perdere, in ultima analisi, è un talento raro. L’amore adulto che non può vedere ogni cosa, come antidoto alle pistole. L’ambito privato contro la follia collettiva (anche se fu tra i primi a interessarsi di terrorismo con “Caro Papà” nel ‘79) il progressivo allontanamento dalle scene, in un isolamento cercato, preteso, ottenuto: “Felicità è star soli d’estate nella città deserta/ i rumori per strada lontani/ seduto sulla tazza del cesso/ con la porta aperta”. Poi si invecchia, si toglie il disturbo e prima di chiudere il sipario, si ricevono tappeti rossi quasi postumi (Il leone d’Oro alla carriera nel 2002, in quel luogo immobile di tristezze concentriche che è il Lido, tenuto sul palco veneziano da un Risi finalmente sorpreso, come un giocattolo scartato fuori tempo massimo) “Ora ho novant’anni e tutti vogliono parlare con me. Che meriti ho? Che cazzo ho fatto io per arrivare fino a qui?”. Aveva capito tutto. “Sono un cretino. Lo stesso stupido cretino che ero a vent’anni”. Aspettava il suo tempo con impazienza: “I miei amici sono morti tutti, con chi parlerò adesso?”, salutava uno ad uno i compagni di un’avventura irripetibile (Mastroianni: “Si commuoveva ripensando a un piatto di pasta e fagioli”, Ugo, l’altro devoto all’arte culinaria, Sordi, Gassman, Manfredi), la domenica mattina abbracciava Marco e Claudio, gli eredi, spesso si rifugiava nel telefono. Con Vittorio, ex mattatore già malato e depresso che prendeva la macchina, lo raggiungeva là dove i Parioli declinano e ammirava con lui, sulla terrazza dell’Aldrovandi, la fissità gelida dell’attuale bioparco, toccava temi dolorosi. “C’era un’aquila su un albero. La fissavamo, muti. Poi Gassman iniziò a parlare: Quell’aquila sono io. Anche io sto seduto per ore su una poltrona. Fermo, a guardare un muro. Pochi mesi dopo se ne andò”. E Risi, che sul tema, proprio con Gassman protagonista, in uno dei suoi ultimi film, si era espresso in terzine: “Fu bello sentirle dire/ ti prego/ non morire”, tacque e lanciò gli occhi al di là dell’amico. In un tutto generoso, dove anche la fine occupava un suo spazio preciso.
A petto in fuori durante i ’50 (l’epopea elementare e popolare di “Poveri ma belli”, acquarello di un’Italia semplice, con tutte le possibilità a portata di mano che in Francia gli valsero l’aggettivo di dinorisienne), sulla tolda dell’amarezza solo diluita nella comicità nei ‘60 (i capolavori “Una vita difficile” e “il Sorpasso” col sogno delle strade deserte, l’incosciente arroganza di Bruno Cortona- Gassman, i primi autogrill, l’Aurelia B24 convertibile e un altro mondo possibile, prima della cementificazione, “ I mostri”, con Tognazzi padre al volante e il figlio Ricky, sullo schermo in un indimenticabile esempio di educazione ipercontemporanea al contrario: “Vedi Paoletto, tu sei intelligente buono e anche bellino ma furbo non lo sei . Ora ti dico una cosa: il mondo è tondo e chi non sa stare a galla, va a fondo. Hai capito bene? Ricordalo. (traffico, infrazioni, clacson, furberie al volante) Aspetta che passo io” e il bambino: “Papà, il semaforo è rosso” “Hai visto il vigile? No? E allora che ti frega? Fai le corna, fai le corna, bravo, così”. Ma anche il notevole, feroce, “Il Gaucho”, con Manfredi emigrato in disgrazia, Gassman impresario cialtrone in Argentina e l’addio all’aeroporto di Buenos Aires con straziante comitato di saluto orchestrato dai paisà, cesura e colpo di genio del film: “Ogni volta che parte qualcuno è un piezz’e core che se ne va”, con Manfredi pragmatico: “Ma no, vedrai che stiamo più larghi”.
Solo nel decennio successivo, dopo una sorprendente indagine anticipatoria di Tangentopoli: “In nome del popolo italiano” e l’esplorazione delle voglie represse da famiglie borghesi e pretori censori, “Vedo nudo” e i quadretti di “Sesso matto”, con Giannini e la Antonelli ninfomane in gondola: “Dai, guarda Venezia, non pensare a me” , “Di Venessia non mi frega niente, mi voglio ti” e l’ex operaio della Wertmüller, all’approccio terrorizzato con un transessuale: “Così non mi va bene, non è corretto, me ne vado, tu c’hai il ‘coso’!” e l’altro: “Borghese, conformista, frocio, fascista”, venne la riflessione sul crepuscolo. L’Oscar mancato per Profumo di Donna nel ‘74: “Cosa si prova, Risi, a sfiorare il traguardo?”. “Voglia di prendere a calci in culo un giornalista che ti sveglia alle sei del mattino per anticipartelo”, delusione trattenuta: “Mi ero preparato anche un discorsetto in inglese”, la consapevolezza che saper perdere, in ultima analisi, è un talento raro. L’amore adulto che non può vedere ogni cosa, come antidoto alle pistole. L’ambito privato contro la follia collettiva (anche se fu tra i primi a interessarsi di terrorismo con “Caro Papà” nel ‘79) il progressivo allontanamento dalle scene, in un isolamento cercato, preteso, ottenuto: “Felicità è star soli d’estate nella città deserta/ i rumori per strada lontani/ seduto sulla tazza del cesso/ con la porta aperta”. Poi si invecchia, si toglie il disturbo e prima di chiudere il sipario, si ricevono tappeti rossi quasi postumi (Il leone d’Oro alla carriera nel 2002, in quel luogo immobile di tristezze concentriche che è il Lido, tenuto sul palco veneziano da un Risi finalmente sorpreso, come un giocattolo scartato fuori tempo massimo) “Ora ho novant’anni e tutti vogliono parlare con me. Che meriti ho? Che cazzo ho fatto io per arrivare fino a qui?”. Aveva capito tutto. “Sono un cretino. Lo stesso stupido cretino che ero a vent’anni”. Aspettava il suo tempo con impazienza: “I miei amici sono morti tutti, con chi parlerò adesso?”, salutava uno ad uno i compagni di un’avventura irripetibile (Mastroianni: “Si commuoveva ripensando a un piatto di pasta e fagioli”, Ugo, l’altro devoto all’arte culinaria, Sordi, Gassman, Manfredi), la domenica mattina abbracciava Marco e Claudio, gli eredi, spesso si rifugiava nel telefono. Con Vittorio, ex mattatore già malato e depresso che prendeva la macchina, lo raggiungeva là dove i Parioli declinano e ammirava con lui, sulla terrazza dell’Aldrovandi, la fissità gelida dell’attuale bioparco, toccava temi dolorosi. “C’era un’aquila su un albero. La fissavamo, muti. Poi Gassman iniziò a parlare: Quell’aquila sono io. Anche io sto seduto per ore su una poltrona. Fermo, a guardare un muro. Pochi mesi dopo se ne andò”. E Risi, che sul tema, proprio con Gassman protagonista, in uno dei suoi ultimi film, si era espresso in terzine: “Fu bello sentirle dire/ ti prego/ non morire”, tacque e lanciò gli occhi al di là dell’amico. In un tutto generoso, dove anche la fine occupava un suo spazio preciso.
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