venerdì 8 gennaio 2010

REATI BIANCHI


di Bruno Tinti


Quando insegnavo Diritto penale dell’economia non avevo studenti particolarmente entusiasti: omicidi, rapine, traffico di droga, questo sì che è diritto penale; frode fiscale, falso in bilancio e bancarotte non li appassionavano poi tanto. Così, all’inizio di ogni corso, mi producevo in un fervorino. Gli chiedevo di immaginare cosa avrebbero fatto se, finita la lezione, non avessero trovato più lo scooter: rubato! Le risposte erano sempre le stesse: l’assicurazione avrebbe pagato; chi era senza assicurazione, ne avrebbe acquistato comunque un altro, magari a rate; alcuni sarebbero andati a piedi per un po’: pochi soldi. A questo punto io tiravo le conclusioni: le società di assicurazione calibrano le loro polizze in funzione del numero dei furti, quindi il loro business garantisce un profitto; gli studenti senza un’assicurazione avrebbero perso una certa somma, poi, presto o tardi, avrebbero comprato un altro scooter e alla fine la loro vita non sarebbe cambiata più di tanto. Poi gli chiedevo di immaginare uno scenario diverso: i loro padri presto o tardi sarebbero andati in pensione; avrebbero ricevuto la cosiddetta liquidazione, da qualche migliaia di euro ad alcune centinaia di migliaia, comunque per molti il frutto del lavoro di un’intera vita; e gli chiedevo cosa ne avrebbero fatto. Le risposte erano sempre le stesse: ci comprano una casa, ci comprano obbligazioni di questa o quella società, si assicurano la tranquillità economica. E fanno bene, dicevo io, dopo una vita di lavoro. Adesso immaginate che la società che gli ha venduto la casa e che ha intascato l’anticipo, in genere tutta la liquidazione perché il resto è mutuo, fallisca: è in difficoltà da molti anni ma ha continuato a chiedere finanziamenti alle banche e li ha ottenuti perché ha nascosto la sua reale situazione economica con bilanci falsi; poi, a un certo punto, non ce l’ha più fatta: bancarotta. Immaginate che i “padroni” della società in cui i loro familiari hanno investito la liquidazione facciano bilanci falsi e così fanno credere a tutti che la società guadagna poco o niente; ma in realtà i soldi ci sono e loro se li portano via, in Lussemburgo o alle isole Cayman. Ecco, gli chiedevo, cosa succede ai vostri padri a questo punto? La risposta è semplice: hanno perso tutto; non uno scooter, tutto; non riavranno più nulla, i risparmi di una vita di lavoro perduti.
Secondo voi si tratta o no di reati gravissimi? Vale la pena di combatterli? E, per combatterli, vale la pena di studiarli? In genere funzionava. Poi è arrivata la nuova stagione del diritto penale dell’economia: il falso in bilancio, una contravvenzione, come la guida senza patente, oppure depenalizzato di fatto da soglie di punibilità assurde o querele che nessuno presenterà mai; la bancarotta, un reato impossibile per ogni imprenditore avveduto: basta suddividere l’impresa in tante imprese più piccole, ognuna con patrimonio, ricavi e debiti non superiori alle soglie previste (nemmeno tanto basse: 300.000, 200.000, 500.000 euro); il concordato preventivo, un metodo legale per liberarsi dei debiti, pagando poco o nulla, e continuare nell’impresa con un nome nuovo e le stesse persone; l’evasione fiscale, un reato con soglie di punibilità talmente alte (bisogna evadere più di 100.000 euro all’anno) che non è contestabile di fatto al 90 % degli evasori. E io ho pensato bene di smettere di insegnare; e, dopo un po’, anche di fare il magistrato. Adesso la domanda è: i reati contro l’economia sono davvero meno gravi di furti, rapine e truffe? E, se sono più gravi, perché le nuove leggi assicurano l’impunità a chi li commette?

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