I danni esistenziali e morali sono stati di fatto cancellati dalle sezioni unite civili della Cassazione. Chi vuole essere risarcito per un parente morto in un incidente o per le conseguenze di un intervento chirurgico sbagliato, dovrà accontentarsi del danno biologico “adeguato” dal giudice caso per caso. Mettendo fine ai numerosi contrasti nella giurisprudenza che si sono registrati negli ultimi anni, la Suprema Corte, con la sentenza 26973 destinata a diventare una pietra miliare in centinaia di migliaia di cause civili e che non mancherà di far discutere, ha stabilito che quando si parla di lesioni personali deve essere considerato e risarcito soltanto il danno biologico, definito anche danno patrimoniale. Una definizione che, pertanto, è destinata a comprendere sia il cosiddetto danno morale, sia quello che numerose sentenze, anche di Cassazione, definivano “danno esistenziale”.
I giudici di piazza Cavour sono stati chiamati a decidere a sezioni unite, per risolvere le diverse interpretazioni contrastanti, in occasione del ricorso presentato dai genitori di un ragazzo, Luca Grego, morto in un incidente stradale nel 1997 a Rovigo. I legali della famiglia chiedevano all’assicurazione oltre al danno biologico, anche i danni morali ed esistenziali.
Secondo quanto stabilito dalle sezioni unite “determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale”. Quest’ultimo, nella prassi, veniva liquidato in percentuale rispetto al primo, il quale a sua volta è invece “agganciato” a tabelle ufficiali. La somma riconosciuta come danno biologico veniva perciò dai giudici aumentata di un terzo o della metà. Una prassi bocciata dalle sezioni unite che in sostanza affermano che in questo modo si arriva ad una illegittima duplicazione dello stesso danno. “Esclusa la praticabilità di tale operazione – scrivono quindi gli ermellini - dovrà il giudice procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando anche le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza”. Una valutazione che va fatta caso per caso e che rappresenta un grande successo per le compagnie di assicurazione.
Il danno esistenziale cancellato nei mesi scorsi dalle sezioni unite Cassazione dopo anni di decisioni contrastanti, viene “rilanciato” dalla sezione lavoro. La sentenza, pur accogliendo in parte il ricorso delle acciaierie Ilva relativo ad una causa intentata da un lavoratore, conferma il diritto del dipendente a vedersi risarcito il “danno esistenziale da demansionamento” aggiungendo che la prova può basarsi anche su “presunzioni”. In pratica, nonostante la recente decisione “anti-esistenziale” delle sezioni unite, sarà più facile ottenere il risarcimento perché il lavoratore non è obbligato a dimostrare “documentalmente” la propria richiesta. Le motivazioni della pronuncia precisano però che “come affermato dalla sentenza 26972 del novembre scorso” emessa dalle sezioni unite, si tratta di un risarcimento “da inquadrare nella categoria del danno non patrimoniale”. Il caso affrontato dai magistrati della sezione lavoro (con la sentenza 29832) riguarda un dipendente della Ilva di Genova, Giorgio B., che licenziato una prima volta dal suo impiego di sesto livello, era stato reintegrato in servizio per ordine del giudice ma “incaricato di espletare mansioni di infimo profilo”, come “fare fotocopie e ritagliarne i margini per poterle rilegare”. Alla sua richiesta di “essere adibito a mansioni adeguate” l’azienda non ha risposto. Da qui la decisione di Giorgio B. di non presentarsi al lavoro incorrendo così in un nuovo licenziamento il 3 aprile del 2000. I giudici di merito, nel 2006, hanno dato ragione al lavoratore dichiarando illegittimo anche il secondo licenziamento e accogliendo la richiesta di risarcimento di danni “materiali, morali ed esistenziali”. Questi ultimi, in particolare, “per un ammontare pari al 50 per cento della retribuzione maturata nei dieci anni tra il 1990 e il 2000”. L’Ilva ricorre in Cassazione ma la Suprema Corte, nell’annullare con rinvio la decisione invitando i giudici d’appello a motivare meglio la condanna dell’azienda al risarcimento, fissa dei “paletti”. In particolare, spiega che “il danno esistenziale è quel pregiudizio, non soltanto emotivo e interiore, che altera abitudini e relazioni, inducendo il lavoratore a scelte di vita diverse quanto alla realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”. La Corte aggiunge infine che “tale danno va dimostrato con tutti i mezzi consentiti”, tra i quali “assume rilievo la prova per presunzioni”. Insomma, se il lavoratore è demansionato il danno alla “realizzazione della personalità” si può anche presumere.
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