

di Luca Telese
Ogni giorno su Il Giornale c’è qualcuno che consiglia a Silvio Berlusconi di rompere con l’infìdo Gianfranco Fini e di aprire un’alleanza con il redento Francesco Rutelli: due giorni fa Vittorio Feltri, ieri Salvatore Tramontano.
Al posto di Rutelli un altro leader di sinistra avrebbe smentito o querelato, e invece l’ex sindaco di Roma è soddisfatto, perché era già finito nel magazzino delle scope, con la sua non indimenticabile Api. E adesso, dopo la lenzuolata di intervista concessa a Laura Cesaretti e sparata in prima pagina con una foto formato poster, è tornato al centro della scena.
L’ex sindaco di Roma si è messo sul mercato, rilasciando dichiarazioni “contro la società multiculturale”, e pronunciandosi per la restrizione della cittadinanza agli immigrati. Un bel paradosso: l’uomo che aveva sfidato Silvio Berlusconi come candidato premier nel 2001, che adesso si trova a stabilire una linea di contatto con il Pdl.
Ma l’ex radicale antipapista e mangiapreti che srotolava la bandiera del Vaticano dalla finestra di Montecitorio ci aveva già abituato alle sue conversioni.
Ma l’ex radicale antipapista e mangiapreti che srotolava la bandiera del Vaticano dalla finestra di Montecitorio ci aveva già abituato alle sue conversioni.
La più prodigiosa segnò un appello per l’astensione ai referendum sulla procreazione assistita a un giorno dal voto, che pareva pronunciato per ottenere benemerenze di Ruini. Il titolo de Il Giornale di ieri, ancora una volta era illuminante. “Rutelli e Berlusconi, primi passi. E adesso si tratta per le riforme”.
Quali? Mistero. Insomma, l’Api ha due mesi di vita e ha già cambiato due simboli. Perchè? “Povero Francesco – spiega con una punta di malizia un ex compagno di strada come Arturo Parisi – i sondaggi lo danno allo zero virgola, e con quel simbolo non va da nessuna parte”. Ma il simbolo dell’Api è appena cambiato: non più il cerotto tricolore vagamente iettatorio dell’esordio, ma le due apette svolazzanti sotto il fiore d’arancio (che poi è una margherita taroccata).
Parisi tira un sospiro: “E’ proprio con il simbolo nuovo che non va da nessuna parte”.
Cosa spinge Rutelli a questa ultima missione impossibile, il dialogo con il centrodestra? Rutelli sembra uno che in politica cerca un padre. Forse perché il sostegno del suo lo aveva perso non appena aveva cominciato a fare politica nei radicali. Il 20 dicembre del 1993, mentre la carriera di Francesco decollava verso la candidatura capitolina, infatti, suo padre Marcello consegnava a Gente una intervista che aveva il sapore amarissimo della disillusione e il tono duro della scomunica inappellabile: “All’università mio figlio diede pochi esami, soprattutto quelli dove si chiacchierava… Lui in quelle prove era bravissimo, aveva una incredibile abilità dialettica, tipica di tanti tribuni della politica. Non svolse, invece, gli esami tecnici fondamentali. Feci di tutto per convincerlo a impiegarsi e studiare…. Non ci fu nulla da fare”. La stroncatura era senza appello: “Mio figlio era un tipo superficiale e sfuggente”. E l’interessato? Con il sangue freddo da grande bluffatore che era una delle sue doti, si raccontava – sempre su Gente, solo una settimana prima – così: “Ho iniziato a lavorare con mio padre a metà degli anni 70, prima ancora di laurearmi in architettura”. Incredibile il risultato prodotto dall’incrocio delle due versioni. Marcello Rutelli: “L’ho invitavo a lavorare nel mio studio con gli altri collaboratori. Lui si presentava ogni tanto nel mio ufficio, ma dopo pochi minuti se ne andava… Speravo che Francesco diventasse architetto. E invece lasciò l’università per cominciare a far politica”. Francesco si riscriveva la biografia così: “Ho dovuto notare la grande difficoltà di svolgere una professione essendo indipendente dai partiti politici”. Un martire della meritocrazia.
Il nuovo Rutelli, quello che prende il posto dello studente svogliato e figlio di papà, è l’ipermilitante radicale, tutto sit-in e proteste non violente. Rifiuta la leva, si ritrova un nuovo padre, molto più anti-convenzionale e pagano del primo. E’ Marco Pannella, che lo prende dal nulla e ne fa il segretario del partito, al pari di molti altri ragazzi di via di Torre Argentina. E’ il Pannella pigmalione che esige dedizione totale e cita Rimbaud: “Ciò che ci guida è il ragionevole regolamento dei sensi”. E Francesco diventa il bel volto di tanti fili diretti nei media del partito, da Radioradicale al mitico Canale 66, dove gli capita di rispondere a una telefonata che venti anni più tardi – inserita da mani anonime - sarebbe diventata un cult su Youtube: “Per quanto riguarda il buco dell’ozono – dice l’ascoltatore con vocione romanesco - io voglio dire che preferisco il buco del culo. Ha capito?”. E Rutelli, impassibile e sorridente:“E’un problema di gusti. Ma tutti sono assolutamente legittimi”.
Certo il leader centrista che si risposa in Chiesa in segreto sembra molto diverso da quello che faceva campagna per i referendum sull’aborto o che nel 1983 si faceva arrestare a Latina per istigazione alla diserzione.
Il nuovo Rutelli, quello che prende il posto dello studente svogliato e figlio di papà, è l’ipermilitante radicale, tutto sit-in e proteste non violente. Rifiuta la leva, si ritrova un nuovo padre, molto più anti-convenzionale e pagano del primo. E’ Marco Pannella, che lo prende dal nulla e ne fa il segretario del partito, al pari di molti altri ragazzi di via di Torre Argentina. E’ il Pannella pigmalione che esige dedizione totale e cita Rimbaud: “Ciò che ci guida è il ragionevole regolamento dei sensi”. E Francesco diventa il bel volto di tanti fili diretti nei media del partito, da Radioradicale al mitico Canale 66, dove gli capita di rispondere a una telefonata che venti anni più tardi – inserita da mani anonime - sarebbe diventata un cult su Youtube: “Per quanto riguarda il buco dell’ozono – dice l’ascoltatore con vocione romanesco - io voglio dire che preferisco il buco del culo. Ha capito?”. E Rutelli, impassibile e sorridente:“E’un problema di gusti. Ma tutti sono assolutamente legittimi”.
Certo il leader centrista che si risposa in Chiesa in segreto sembra molto diverso da quello che faceva campagna per i referendum sull’aborto o che nel 1983 si faceva arrestare a Latina per istigazione alla diserzione.
Quando nel 1999 Rutelli si emancipa da Pannella, si reinventa ecologista, mette su una lista Verde concorrente con quella originale. Viene eletto, si mangia il Sole che ride. Approda nel consiglio comunale di Roma, dove un altro padre adottivo d’occasione, Achille Occhetto lo va a pescare, prima per proporlo ministro, poi per candidarlo a sindaco. Rutelli vince, e finisce sul trampolino di lancio della grande politica. Prima si inventa un altro movimento fantasma (le “Centocittà”, ribattezzate da Giuliano Amato le “centopadelle”). Quindi si aggancia al treno di Romano Prodi e del suo Asinello. Collabora all’espulsione di Antonio Di Pietro al congresso di Venezia. E’ un nuovo Rutelli, ovviamente, meno eco, molto lib-lab. Che nel 2001 riesce a fregare il posto di candidato premier allo stesso Amato. “Finiremo su una sedia a… rutelle”, profetizza il dottor Sottile. E’ vero. Il suo Ulivo perde, ma lui riesce di nuovo a tramutare la sconfitta in opportunità. I centristi sono senza guida, lui stringe un patto con Marini, annette il Ppi all’Asinello (più altri corpuscoli come i diniani) e si ritrova fra le mani un partito vero, la Margherita. E’ in questi anni che nasce il fenomeno mediatico di “Franciasco”. È il piacione. Un leader bello, brizzolato, che dovrebbe prendere il posto di Berlusconi con la forza della sua giovinezza e del suo carisma estetico. Non piace a Bossi, che lo attacca brutalmente sul piano personale: “Il prossimo premier deve avere figli certi”. Tutti la prendono come una battuta greve ed ignobile sui figli adottivi dell’ex sindaco, e invece Bossi spiegherà alla buvette di Montecitorio, un po’ stupito, che non era convinto della virilità ostentata da Rutelli. Eppure il marketing di “Cicciotello” funzionava. “Al massimo è un personaggio da soap beauty”, sentenziò con malizia Giuliano Ferrara. “Rutelli è bello”, ammise Berlusconi. Su La Stampa Fabio Martini rivelò, nel 2000, che Il Cavaliere di Arcore gli aveva detto a bruciapelo: “Ma perché non vieni in Forza Italia? Tu sei perfetto per noi”. Il bello è che molti degli elettori progressisti costretti a votarlo leader erano dello stesso avviso.
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