sabato 23 gennaio 2010

Mitra, mostri e fantasmi: la vita blindata delle famiglie dei giudici


FIGLI-BAMBINI CHE ESORCIZZANO LA PRESENZA DELLE ARMI CON IL GIOCO.
E IL TERRORE DELLE TELEFONATE
S. A.


Giovanni Falcone non voleva figli per non mettere al mondo orfani. Paolo Borsellino ha dovuto fare i conti con l’anoressia che ha colpito sua figlia quando assieme a Falcone venne portato all’Asinara per scrivere il maxiprocesso.
Storie che si ripetono anche oggi come dimostrano i recenti attentati sventati contro magistrati siciliani.
Chi le racconta chiede l’anonimato per non accrescere l’ansia dei famigliari che spesso vengono tenuti all’oscuro dei reali pericoli per non compromettere ancor di più quella sfera privata, unico respiro di libertà, di una vita che altro non è che una prigionia a cielo aperto.
Per questo i nomi, ma solo quelli, sono di fantasia.
Marco ha 12 anni. È il maggiore dei due figli di un magistrato di punta della Procura palermitana. Dall’ospedale dove è nato è tornato a casa su un auto blindata. E da allora non ha mai fatto una passeggiata con il suo papà da soli. Non hanno mai corso nel parco senza avere accanto uomini armati. E se fino a qualche anno fa per Marco quei mitra al collo erano un gioco ora inizia a coglierne il pericolo. Allora preferisce non uscire. Resta sempre più in casa. E sempre più in silenzio. Sente di essere un problema per i genitori dei suoi compagni che quando lo vedono arrivare a scuola accompagnato dagli agenti di scorta mormorano frasi indignate.
E se i figli sono grandi, maggiore è la consapevolezza del pericolo e la reazione che l’accompagna come gli attacchi di panico di cui soffre Monica, 20 anni. Un’altra figlia di un altro magistrato al fronte. Monica quando va a Roma all’Università viene assalita dalla paura di ricevere una di quelle telefonate che non si vorrebbero mai ricevere. E nel salire sulla scaletta dell’aereo si volta indietro mille volte, guarda il suo papà che la saluta e piange.
È la vita dei magistrati antimafia quella che nessuno racconta, fatta di sentimenti, di affetti, di svaghi, che ogni persona dovrebbe avere il diritto di coltivare.
Un cerchio necessario che si restringe sempre più ogni volta che arriva la notizia che Cosa Nostra sta preparando un attentato. La paura si insinua in ogni pensiero, condiziona ogni decisione. Lo sa bene la mamma, vedova, di un altro pm che in Sicilia è nato, dalla Sicilia è dovuto andare via perché minacciato di morte e in Sicilia è voluto tornare. Nessuna domanda. Sa che suo figlio è in pericolo e prega per lui ogni sera.
Così come ogni sera al primo segnale di ritardo Francesca 15 anni passeggia davanti alla porta in attesa che suo padre rientri e quando squilla il telefono prima che la mano alzi la cornetta il cuore inizia a battere forte.
Luigi, “topino” così lo chiamano i fratelli maggiori, ha solo 4 anni, pochi per percepire la paura che pure regna già nell’innocenza delle parole “tu lo distruggi il mostro che fa male a papà, vero?” che rivolge ad uno degli agenti di scorta con cui si vanta di essere grande amico.
Figli di uomini abituati a fare i conti con il pericolo ma non a sopportare di essere definiti “plotone di esecuzione” e a restare in silenzio, perché se parlassero sarebbero politicizzati più di quanto lo siano già tacendo. Ma la paura resta nascosta nelle pieghe dell’animo, negli sguardi smarriti dei loro cari. Mentre cresce la vergogna per quelle parole “istituzionali”.

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