martedì 26 gennaio 2010

Prodi: "La gente mi chiede chi comanda nel Pd"


di Massino Giannini

Bastonato in Puglia. Umiliato a Bologna. Spiazzato nel Lazio. Confuso ovunque. Romano Prodi, padre nobile del Partito democratico, osserva da lontano i tormenti della sua "creatura". "Tre settimane fa ero a Campolongo, a sciare. In fila per lo skilift la gente mi fermava e mi chiedeva solo questo: ma chi comanda, nel Pd?".
Bella domanda. Il Professore non ha la risposta. E per la verità neanche la cerca: "Ormai sono fuori, e quando si è fuori si è fuori...", dice l'ex premier. Non si sogna nemmeno di "sparare sul quartier generale", una delle abitudini preferite della sinistra italiana di ieri e di oggi. Proprio lui, poi, l'unico che è riuscito a battere Berlusconi due volte, anche se poi non è riuscito a governare come avrebbe voluto.
Ma la domanda resta, in tutta la sua drammatica semplicità. Chi comanda, nel Pd? Il buon Bersani, fresco segretario pragmatico e onesto, ieri ha messo la sua faccia sulla sconfitta pugliese e sul pasticcio bolognese. Ma il suo limite, in questa prima fase di gestione del partito, è stato un esercizio timido e intermittente della leadership. Quello che nella campagna elettorale delle primarie nazionali era stato il suo miglior pregio (la sana realpolitik emiliana, la forza operosa e tranquilla, la capacità di rassicurare gli elettori) nella campagna elettorale per le primarie è diventato il suo peggior difetto. Molte parole di buon senso, ma pochi messaggi che trascinano. Molte iniziative diffuse sul territorio, ma poca "gestione" delle partite locali complesse. Così, a tratti, ha alimentato il sospetto di lasciarsi "etero-dirigere": dalla "volpe del tavoliere" in Puglia, dalla Bonino nel Lazio, da Casini un po' ovunque.

Ieri, in direzione, nessuno l'ha processato per questo. La minoranza veltroniana e franceschiniana non ha infierito, ed ha evitato di ricadere nel vizio tafazziano preferito dal centrosinistra: il regolamento dei conti. Ma in conferenza stampa Bersani era solo, a fronteggiare le domande dei cronisti. Dov'era Massimo D'Alema, che in Puglia ha tentato con l'Udc l'ennesimo esperimento di laboratorio, spazzato via con le provette neo-centriste e gli alambicchi neo-proporzionalisti dai 200 mila elettori che hanno tributato un plebiscito a Nichi Vendola? E dov'era Enrico Letta, che il 4 gennaio in un Largo del Nazareno ancora deserto per le vacanze di Capodanno annunciò il no alle primarie e la candidatura unica di Francesco Boccia? Non pervenuti. E così l'impressione, che è di Prodi ma non certo solo di Prodi, è che alla fine il partito sia in realtà "sgovernato", e un po' in balia di se stesso. Il Professore non lo dice, e "per correttezza" (come ripete in continuazione) si guarda bene dal dare giudizi sulle strategie politiche di questi ultimi mesi e sulle scelte del segretario. Lui, tra l'altro, Bersani l'ha anche sostenuto e votato alle primarie. Ma il Pd è pur sempre il "suo" partito. Lo ha sognato e alla fine fondato. Vederlo ridotto così, oggi, gli fa male. "Sa cosa mi dispiace, soprattutto? È vedere che ormai sembra sempre più debole la ragione dello stare insieme...". Come dire: quello che manca è il vecchio "spirito dell'Ulivo", quel mantra evocato ossessivamente fino a due anni fa, a volte quasi come un esorcismo, che spinse e convinse i vertici di Ds e Margherita ad uscire dalla casa dei padri, e a fondere i due riformismi, quello di matrice laico-socialista e quello di matrice democratico-cristiana.

Non che nelle stagioni passate quello "spirito" abbia soffiato così impetuoso. Ma è vero che oggi appare impalpabile. Quasi svanito, come dimostrano le piccole e ingrate diaspore di queste settimane, dalla api rutelliane e agli altri "centrini" cattolici. Dov'è finito il progetto? Dov'è finita "l'unità" che gli elettori invocano da anni? Di nuovo: Prodi non ha la risposta. Si limita a riproporre le domande. E con lui se le ripropone l'eroico "popolo del centrosinistra", che si mette diligente in fila, con un euro in mano, in ogni fredda domenica in cui la pur esecrata "nomenklatura" chiama: quale autodafè deve ancora accadere, prima che le magnifiche sorti e progressive del grande "partito riformista di massa" si riducano in rovine fumanti?

Per il Professore, stavolta, c'è un dolore nel dolore. La spina nel cuore si chiama Bologna. Nelle dimissioni di Delbono c'è anche un po' di debacle prodiana. Era stato l'ex premier, a lanciare "l'amico Flavio" verso la candidatura a sindaco. Per forza, oggi, la sua uscita di scena brucia due volte. Prodi prova a girarla in positivo: "Prima di tutto, analizziamo la dimensione del problema. Di cosa si sta parlando? Non si distrugge la vita di un uomo, come è accaduto in questi giorni, per una storia come quella, per una manciata di euro...". E se gli fai notare lo "scandaletto", i due bancomat e il "cha-cha-cha della segretaria", il Professore non arretra. "Certo, doveva essere più accorto. Ma in questi giorni nessuno si è limitato a dire questo: gli hanno dato del delinquente, invece. Hanno parlato di limite etico travolto. Eppure altrove, per altri amministratori locali di centrodestra che ne hanno combinate di tutti i colori, nessuno ha gridato allo scandalo, e si a' mai sognato di chiedere le dimissioni. Allora queste cose le vogliamo dire sì o no?". Appunto, le dimissioni. Proprio a Bologna, che già era uscita un po' malconcia dall'era Cofferati. "Ma anche le dimissioni, vede, confermano la differenza di stile di Delbono: ha compiuto un atto di responsabilità verso la città. Ora sarà più libero di dimostrare la sua innocenza, della quale sono non sicuro, ma sicurissimo. Non era obbligato a dimettersi, ma l'ha fatto. Ha messo il bene comune sopra a tutto, prima delle convenienze personali. Chi altri l'avrebbe fatto? La Moratti, forse?".

E ora? Che ne sarà di Palazzo Accursio? Nei boatos, che riecheggiano sotto i portici del centro storico e nei conciliaboli del Bar Ciccio, c'è solo un nome che rimbalza, per la successione a Delbono. Ed è proprio il suo: Romano Prodi. Possibile? Il Professore ridacchia, e quasi sibila in uno slang emiliano che si fa più stretto: "Ma non ci pensi neanche un momento... Gliel'ho già detto: in politica o si sta dentro, o si sta fuori. E io dentro ci sono già stato anche troppo. Mi riposo, leggo, studio molto, faccio le mie lezioni qui in Italia e in Cina. E sono sereno così". Ma il Pd, Professore: che ne sarà del Pd? "Non lo so, speriamo bene...". Di più non gli si estorce, all'uomo che tuttora molti continuano a considerare un possibile "salvatore della patria", per Bologna e non solo. "Eh no - conclude lui - salvatore della patria no! Va bene una volta, va bene due volte, ma tre volte proprio non si può. Grazie tante, ma abbiamo già dato...".
m.giannini@repubblica.it

(26 gennaio 2010)

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