Afghanistan e Iraq. Le azioni coperte in Pakistan. I guai con l'Iran. E ora Al Qaeda nello Yemen. Mai l'America aveva avuto tanti fronti aperti. E un sistema di sicurezza così fragile Il consigliere anti terrrorismo John Brennan con Robert Gibbs e Janet Napolitano
John Brennan
La maratona televisiva, assolutamente non casuale e concordata nei dettagli con il presidente Usa e con il consigliere per la Sicurezza James L. Jones, è servita a evitare che lo scontro su chi ha sbagliato nell'intelligence si svolgesse in un dibattito pubblico. E a rimarcare come la Casa Bianca vuole combattere il terrorismo di Al Qaeda.
Per Obama è un rientro difficile quello dalle vacanze natalizie alle Hawaii. Il presidente Premio Nobel per la pace comincia il suo secondo anno alla Casa Bianca all'insegna della guerra e del terrorismo, dopo aver appena raggiunto una vittoria importante, ma parziale, sulla riforma sanitaria, aver perso la partita sulla legge per l'ambiente e con l'exit strategy dalla recessione e dalla crisi economica tutta da mettere a punto. Mai l'America nella sua storia è stata impegnata su tanti fronti: la guerra in Afghanistan, l'intervento con operazioni clandestine in Pakistan, l'uscita dal conflitto in Iraq, lo spettro di una crisi anche militare con l'Iran: e adesso il nemico numero uno, Al Qaeda, che sembra essersi riorganizzato nella Penisola arabica e la escalation certa di azioni clandestine in Yemen, un quarto fronte pieno di insidie e pericoli. Il tutto sapendo che il meccanismo di protezione degli Usa dagli attacchi esterni costruito negli ultimi nove anni presenta buchi evidenti. "Ci sono stati errori umani e nel sistema che io considero assolutamente inaccettabili", ha detto Obama il 29 dicembre, annunciando di voler capire come e perché l'ex studente nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab è riuscito a salire su un volo diretto negli Stati Uniti indossando un mortale congegno esplosivo nascosto nelle mutande.
Appena messo piede nella gelida Washington, Barack Obama ha convocato martedì 5 gennaio tutti gli uomini della sua amministrazione che si occupano di intelligence e di guerra al terrorismo. A loro ha chiesto di capire l'errore commesso, e di trovare le falle nel sistema di protezione, di portare alla luce gli eventuali comportamenti irresponsabili, che solo grazie a un innesco imperfetto e al coraggio di un passeggero che si è lanciato sul giovane terrorista nigeriano ha evitato l'esplosione in volo di un aereo e la morte di quasi 300 persone. Al mondo dell'intelligence ha chiesto con una certa rudezza che non ci siano più rivalità e guerre intestine come quella che si è consumata fino ai primi giorni di dicembre scorso tra il capo della Cia Leon Panetta e il direttore della National Intelligence Dennis Blair: con il secondo che voleva avere l'ultima parola sulla nomina dei capi degli agenti all'estero e sulle operazioni coperte e il primo che rifiutava ogni ingerenza nel proprio lavoro. Una crisi arrivata fino al punto che Obama ha preso ufficialmente posizione con un memo firmato dal generale Jones di appoggio alla Cia.
C'è stato qualcosa di simile, gelosie e ripicche tra spie, che può aver causato il corto circuito nell'apparato nel caso del mancato attentato sul volo verso Detroit? Abdulmutallab non era un perfetto sconosciuto al sistema di intelligence americano, una macchina che dall'attentato alle Torri Gemelle a oggi è costata finora 40 miliardi di dollari. Negli ultimi mesi diverse agenzie governative americane avevano raccolto elementi che, messi tutti insieme, avrebbero dovuto far scattare l'allarme al National Counterterrorism Center, l'organismo creato da George W. Bush per coordinare e utilizzare il lavoro dei 16 centri di spionaggio americani (vedere riquadro nella pagina seguente) e oggi diretto da Michael Leiter, un funzionario arrivato nel mondo delle spie dopo una lunga carriera come consigliere dei giudici della Corte Suprema e al Dipartimento della Giustizia. E impedire che la giovane recluta di Al Qaeda in Yemen si imbarcasse sul volo per Detroit.
C'erano le intercettazioni fatte dalla National Security Agency nella primavera del 2009 in cui si parlava di un nigeriano pronto a entrare in azione negli Stati Uniti. C'erano i comportamenti sospetti di Umar Farouk Abdulmutallab, come l'acquisto di un biglietto in contanti e l'imbarco con un semplice zainetto come bagaglio. C'erano le decisioni inglesi di non permettere più l'ingresso in Gran Bretagna all'ex studente di ingegneria. C'erano, soprattutto, le preoccupazioni espresse apertamente dal padre del ragazzo ai rappresentanti dell'ambasciata americana in Nigeria: l'uomo, un ricco e conosciuto banchiere, aveva fornito dettagli sul fatto che il figlio fosse in Yemen, che si era legato al mondo dell'estremismo e che in una telefonata lo aveva esortato a non cercarlo più. Sarebbe bastato, prima ancora del lavoro di analisi dell'intelligence, che il Dipartimento di Stato (ha subito passato alla Cia l'informazione) controllasse se Abdulmutallab avesse un visto di ingresso negli Usa e lo cancellasse, rendendo così impossibile l'inizio del viaggio.
In attesa che Barack Obama decida se qualche testa dovrà saltare per manifesta incapacità o pigrizia burocratica, le prossime settimane saranno segnate dal problema terrorismo e dalle polemiche sul modo in cui la Casa Bianca intende agire. Il presidente ha tenacemente perseguito nel corso del primo anno l'obiettivo di non fare dell'azione anti-terrore una bandiera ideologica della sua presidenza, così come ha fatto George W. Bush, ma di rendere esplicito con i fatti e le scelte militari che il suo obiettivo è Al Qaeda e i suoi militanti ovunque essi operino. Una scelta politica che i pasdaran della precedente amministrazione, a cominciare dall'ex vice presidente Dick Cheney, hanno criticato in ogni occasione. Anche subito dopo il fallito attentato di Natale, Cheney ha sparato alzo zero sulla Casa Bianca: "Ancora una volta appare chiaro che il presidente Obama pretende che noi non siamo in guerra. Sembra pensare che, rispondendo con toni bassi a un tentativo di far esplodere un aereo e uccidere centinaia di persone, noi non saremo in guerra".
È curioso, o spiegabile solo con l'ubriacatura ideologica e la difesa degli errori fatti a cominciare dalla guerra in Iraq, che Cheney critichi in questo modo Obama. Secondo uno studio del think tank conservatore New America Foundation, Barack Obama ha imboccato con maggiore decisione la via delle operazioni clandestine contro Al Qaeda rispetto al suo predecessore: nel 2009 ci sono stati 43 attacchi dei droni armati di missili, rispetto ai 38 ordinati da Bush nel 2008, contro esponenti dell'organizzazione terroristica che avevano la base in Pakistan e nelle cosiddette aree tribali al confine con l'Afghanistan. Le operazioni sono state portate avanti anche senza il consenso del governo pachistano. Stesso scenario si è aperto in Yemen dove negli ultimi mesi del 2009 ci sono state almeno due operazioni contro Al Qaeda. Obama ha dato carta bianca alla Central Intelligence Agency per i voli e i bombardamenti dei droni: e la risposta non si è fatta attendere, visto che poco prima di Natale sette operativi della Cia sono stati uccisi da un attacco suicida nella base di Khost, confine tra Afghanistan e Pakistan.
Barack Obama ancora prima di entrare alla Casa Bianca aveva detto che Al Qaeda era il suo obiettivo principale, perché quella era l'organizzazione che aveva attaccato l'America nel 2001. La prima conseguenza è stata il disimpegno in Iraq, dove è cominciato il ritiro delle truppe e l'uscita dei soldati americani dalle città, affidando la sicurezza agli iracheni (per la prima volta dall'invasione nello scorso mese non ci sono state vittime tra i soldati Usa). Ma l'allentamento della pressione in quell'area non ha portato a un minor impegno militare Usa. Anzi, Obama ha deciso nel giro di 10 mesi due aumenti dei soldati in Afghanistan: a febbraio 2009, 17 mila in più, a novembre, altri 30 mila.
Era solo il 10 dicembre scorso quando Obama prese la parola ricevendo il Premio Nobel per la pace a Oslo: "Forse la questione più profonda che avvolge il premio che ritiro sta nel fatto che io sono il Comandante in capo militare di una Nazione che è coinvolta in due guerre. Una di queste è avviata alla sua conclusione. L'altra è un conflitto che l'America non ha cercato e che vede coinvolti altri 42 paesi nello sforzo di difendere noi stessi e tutte le nazioni da altri attacchi". E più avanti, parlando di quello che lui considera il nemico numero uno dell'America, ha aggiunto: "Non commettiamo errori: al mondo il diavolo esiste... La trattativa non può convincere i capi di Al Qaeda a deporre le armi. Dire che la forza può talvolta essere necessaria non è un'espressione di cinismo, è riconoscere la storia: le imperfezioni dell'uomo e i limiti della ragione".
Adesso Obama sa che tra le imperfezioni ci sono anche quelle del sistema di difesa dell'America. Forse, a questo punto, deciderà anche di rileggere la strage che si consumò il 5 novembre scorso nella caserma più grande d'America, a Fort Hood, in Texas: il maggiore Nidal Malik Hasan, di religione musulmana e in contatto ormai accertato via e-mail con un imam fomentatore della jihad nato negli Usa, ma di origine yemenita, uccise 13 tra commilitoni e civili, ne ferì 30. Il presidente Usa dovrà comunque dare una risposta nel più breve tempo possibile alle paure del suo Paese. E non ha molto tempo, al massimo può aspettare la fine di gennaio, quando a Washington si riuniranno insieme Camera e Senato per ascoltare Barack Obama che, nel solenne discorso sullo Stato dell'Unione, spiegherà che rotta ha preso l'America.
(08 gennaio 2010)
Per Obama è un rientro difficile quello dalle vacanze natalizie alle Hawaii. Il presidente Premio Nobel per la pace comincia il suo secondo anno alla Casa Bianca all'insegna della guerra e del terrorismo, dopo aver appena raggiunto una vittoria importante, ma parziale, sulla riforma sanitaria, aver perso la partita sulla legge per l'ambiente e con l'exit strategy dalla recessione e dalla crisi economica tutta da mettere a punto. Mai l'America nella sua storia è stata impegnata su tanti fronti: la guerra in Afghanistan, l'intervento con operazioni clandestine in Pakistan, l'uscita dal conflitto in Iraq, lo spettro di una crisi anche militare con l'Iran: e adesso il nemico numero uno, Al Qaeda, che sembra essersi riorganizzato nella Penisola arabica e la escalation certa di azioni clandestine in Yemen, un quarto fronte pieno di insidie e pericoli. Il tutto sapendo che il meccanismo di protezione degli Usa dagli attacchi esterni costruito negli ultimi nove anni presenta buchi evidenti. "Ci sono stati errori umani e nel sistema che io considero assolutamente inaccettabili", ha detto Obama il 29 dicembre, annunciando di voler capire come e perché l'ex studente nigeriano Umar Farouk Abdulmutallab è riuscito a salire su un volo diretto negli Stati Uniti indossando un mortale congegno esplosivo nascosto nelle mutande.
Appena messo piede nella gelida Washington, Barack Obama ha convocato martedì 5 gennaio tutti gli uomini della sua amministrazione che si occupano di intelligence e di guerra al terrorismo. A loro ha chiesto di capire l'errore commesso, e di trovare le falle nel sistema di protezione, di portare alla luce gli eventuali comportamenti irresponsabili, che solo grazie a un innesco imperfetto e al coraggio di un passeggero che si è lanciato sul giovane terrorista nigeriano ha evitato l'esplosione in volo di un aereo e la morte di quasi 300 persone. Al mondo dell'intelligence ha chiesto con una certa rudezza che non ci siano più rivalità e guerre intestine come quella che si è consumata fino ai primi giorni di dicembre scorso tra il capo della Cia Leon Panetta e il direttore della National Intelligence Dennis Blair: con il secondo che voleva avere l'ultima parola sulla nomina dei capi degli agenti all'estero e sulle operazioni coperte e il primo che rifiutava ogni ingerenza nel proprio lavoro. Una crisi arrivata fino al punto che Obama ha preso ufficialmente posizione con un memo firmato dal generale Jones di appoggio alla Cia.
C'è stato qualcosa di simile, gelosie e ripicche tra spie, che può aver causato il corto circuito nell'apparato nel caso del mancato attentato sul volo verso Detroit? Abdulmutallab non era un perfetto sconosciuto al sistema di intelligence americano, una macchina che dall'attentato alle Torri Gemelle a oggi è costata finora 40 miliardi di dollari. Negli ultimi mesi diverse agenzie governative americane avevano raccolto elementi che, messi tutti insieme, avrebbero dovuto far scattare l'allarme al National Counterterrorism Center, l'organismo creato da George W. Bush per coordinare e utilizzare il lavoro dei 16 centri di spionaggio americani (vedere riquadro nella pagina seguente) e oggi diretto da Michael Leiter, un funzionario arrivato nel mondo delle spie dopo una lunga carriera come consigliere dei giudici della Corte Suprema e al Dipartimento della Giustizia. E impedire che la giovane recluta di Al Qaeda in Yemen si imbarcasse sul volo per Detroit.
C'erano le intercettazioni fatte dalla National Security Agency nella primavera del 2009 in cui si parlava di un nigeriano pronto a entrare in azione negli Stati Uniti. C'erano i comportamenti sospetti di Umar Farouk Abdulmutallab, come l'acquisto di un biglietto in contanti e l'imbarco con un semplice zainetto come bagaglio. C'erano le decisioni inglesi di non permettere più l'ingresso in Gran Bretagna all'ex studente di ingegneria. C'erano, soprattutto, le preoccupazioni espresse apertamente dal padre del ragazzo ai rappresentanti dell'ambasciata americana in Nigeria: l'uomo, un ricco e conosciuto banchiere, aveva fornito dettagli sul fatto che il figlio fosse in Yemen, che si era legato al mondo dell'estremismo e che in una telefonata lo aveva esortato a non cercarlo più. Sarebbe bastato, prima ancora del lavoro di analisi dell'intelligence, che il Dipartimento di Stato (ha subito passato alla Cia l'informazione) controllasse se Abdulmutallab avesse un visto di ingresso negli Usa e lo cancellasse, rendendo così impossibile l'inizio del viaggio.
In attesa che Barack Obama decida se qualche testa dovrà saltare per manifesta incapacità o pigrizia burocratica, le prossime settimane saranno segnate dal problema terrorismo e dalle polemiche sul modo in cui la Casa Bianca intende agire. Il presidente ha tenacemente perseguito nel corso del primo anno l'obiettivo di non fare dell'azione anti-terrore una bandiera ideologica della sua presidenza, così come ha fatto George W. Bush, ma di rendere esplicito con i fatti e le scelte militari che il suo obiettivo è Al Qaeda e i suoi militanti ovunque essi operino. Una scelta politica che i pasdaran della precedente amministrazione, a cominciare dall'ex vice presidente Dick Cheney, hanno criticato in ogni occasione. Anche subito dopo il fallito attentato di Natale, Cheney ha sparato alzo zero sulla Casa Bianca: "Ancora una volta appare chiaro che il presidente Obama pretende che noi non siamo in guerra. Sembra pensare che, rispondendo con toni bassi a un tentativo di far esplodere un aereo e uccidere centinaia di persone, noi non saremo in guerra".
È curioso, o spiegabile solo con l'ubriacatura ideologica e la difesa degli errori fatti a cominciare dalla guerra in Iraq, che Cheney critichi in questo modo Obama. Secondo uno studio del think tank conservatore New America Foundation, Barack Obama ha imboccato con maggiore decisione la via delle operazioni clandestine contro Al Qaeda rispetto al suo predecessore: nel 2009 ci sono stati 43 attacchi dei droni armati di missili, rispetto ai 38 ordinati da Bush nel 2008, contro esponenti dell'organizzazione terroristica che avevano la base in Pakistan e nelle cosiddette aree tribali al confine con l'Afghanistan. Le operazioni sono state portate avanti anche senza il consenso del governo pachistano. Stesso scenario si è aperto in Yemen dove negli ultimi mesi del 2009 ci sono state almeno due operazioni contro Al Qaeda. Obama ha dato carta bianca alla Central Intelligence Agency per i voli e i bombardamenti dei droni: e la risposta non si è fatta attendere, visto che poco prima di Natale sette operativi della Cia sono stati uccisi da un attacco suicida nella base di Khost, confine tra Afghanistan e Pakistan.
Barack Obama ancora prima di entrare alla Casa Bianca aveva detto che Al Qaeda era il suo obiettivo principale, perché quella era l'organizzazione che aveva attaccato l'America nel 2001. La prima conseguenza è stata il disimpegno in Iraq, dove è cominciato il ritiro delle truppe e l'uscita dei soldati americani dalle città, affidando la sicurezza agli iracheni (per la prima volta dall'invasione nello scorso mese non ci sono state vittime tra i soldati Usa). Ma l'allentamento della pressione in quell'area non ha portato a un minor impegno militare Usa. Anzi, Obama ha deciso nel giro di 10 mesi due aumenti dei soldati in Afghanistan: a febbraio 2009, 17 mila in più, a novembre, altri 30 mila.
Era solo il 10 dicembre scorso quando Obama prese la parola ricevendo il Premio Nobel per la pace a Oslo: "Forse la questione più profonda che avvolge il premio che ritiro sta nel fatto che io sono il Comandante in capo militare di una Nazione che è coinvolta in due guerre. Una di queste è avviata alla sua conclusione. L'altra è un conflitto che l'America non ha cercato e che vede coinvolti altri 42 paesi nello sforzo di difendere noi stessi e tutte le nazioni da altri attacchi". E più avanti, parlando di quello che lui considera il nemico numero uno dell'America, ha aggiunto: "Non commettiamo errori: al mondo il diavolo esiste... La trattativa non può convincere i capi di Al Qaeda a deporre le armi. Dire che la forza può talvolta essere necessaria non è un'espressione di cinismo, è riconoscere la storia: le imperfezioni dell'uomo e i limiti della ragione".
Adesso Obama sa che tra le imperfezioni ci sono anche quelle del sistema di difesa dell'America. Forse, a questo punto, deciderà anche di rileggere la strage che si consumò il 5 novembre scorso nella caserma più grande d'America, a Fort Hood, in Texas: il maggiore Nidal Malik Hasan, di religione musulmana e in contatto ormai accertato via e-mail con un imam fomentatore della jihad nato negli Usa, ma di origine yemenita, uccise 13 tra commilitoni e civili, ne ferì 30. Il presidente Usa dovrà comunque dare una risposta nel più breve tempo possibile alle paure del suo Paese. E non ha molto tempo, al massimo può aspettare la fine di gennaio, quando a Washington si riuniranno insieme Camera e Senato per ascoltare Barack Obama che, nel solenne discorso sullo Stato dell'Unione, spiegherà che rotta ha preso l'America.
(08 gennaio 2010)
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