mercoledì 3 febbraio 2010

Bologna, ma il Pd dov’è?


di Gianfranco Pasquino


Posto di fronte alla inaspettata e gravissima crisi di quello che fu il gioiello dei suoi governi locali, Bologna, con il suo corpaccione appesantito da troppo potere, ma, ancora di più da troppe, ingiustificabili, ambizioni di carriera, né il Partito democratico della città né i dirigenti nazionali sembrano avere acquisito sufficiente consapevolezza della realtà. Da un lato, vorrebbero votare subito, insieme alle elezioni regionali, oppure no, preferirebbero guadagnare tempo per fare dimenticare il misfatto. Dall’altro vorrebbero – in verità, a norma del loro stesso Statuto, dovrebbero – tenere le elezioni primarie, ma temono che vinca il candidato più popolare, Maurizio Cevenini, politicamente indefinito, ma non proprio organico al gruppo dirigente locale.
Vorrebbero, ma forse no, che Romano Prodi, il “briscolone”, per usare la terminologia locale, togliesse loro le castagne dal fuoco, però non sono affatto sicuri che poi riuscirebbero a controllarlo. Con Prodi, che vincerebbe alla grande (ma sarebbe un po’ come Blair che va a fare il sindaco di Manchester…), il rischio sarebbe duplice. Se Prodi decidesse di scegliersi gli assessori fidati (anche se non tutti i prodiani hanno sistematicamente dato buona prova di sé), allora addio posti di lavoro per l’apparato locale. Inoltre, non è affatto detto che Prodi garantirebbe la tenuta del blocco di potere che anche nelle ultime elezioni aveva fatto quadrato intorno al candidato ufficiale del Pd, ma che adesso potrebbe cominciare a nutrire qualche dubbio. Le componenti di questo blocco, che non sono soltanto le Cooperative e la Cgil, potrebbero anche pensare-temere che con Prodi una qualche visione meno asfittica sul ruolo e sul futuro della città (altrimenti perché Prodi dovrebbe dedicarci cinque anni della sua vita?) diventerebbe possibile per tutti.
A questo punto, è possibile sostenere che sarebbe persino doveroso per Prodi sorbirsi l’amaro calice di governare la sua città, grande laboratorio politico, quella dove, si dice, prima è nato l’Ulivo, poi è stato benedetto il Partito democratico. Non tanto in fondo, lui stesso è corresponsabile della accettazione nel 2003 della candidatura di Cofferati e, in seguito, nel 2008-2009 di una tambureggiante e sfolgorante campagna a favore di Delbono con molte apparizioni congiunte dall’inizio alla fine, culminata, qualche giorno prima del voto, nella plateale frequenza assieme al candidato alla messa in Santo Stefano. Naturalmente, non è il caso di andare oltre nell’imporre a Prodi il contrappasso.
Quello che, al momento, sembra visibile è soprattutto la penosa impasse di un gruppo dirigente locale, soprattutto quello degli ex democratici di Sinistra, mai rinnovatosi, e al momento della rapida e incolore costituzione del nuovo partito, limitatosi a fondere e sommare le due organizzazioni (per la verità, quella della Margherita, i cui ex esponenti appaiono particolarmente silenziosi, assolutamente minoritaria), senza tentare nessuna operazione di apertura, di coinvolgimento, di mobilitazione.
Quello che sorprende è che la cosiddetta borghesia “rossa” del centrosinistra ha prima, nel 2003, fatto molto rumore con la cosiddetta “Sveglia”, per poi ingoiare senza primarie e senza rigetto il paracadutato Cofferati. Poi si è schierata in maniera persino imbarazzante, già nel corso della campagna elettorale, non soltanto alla luce dei, neanche allora del tutto ignoti, fatti successivi, dietro il candidato puntellato e pilotato dal Pd, i cui esponenti hanno poi ottenuto le cariche di loro interesse, vicesindaco e assessori. Adesso, la borghesia “rossa” appare sostanzialmente silenziosa. Non protesta e non propone. Per intenderci, sembra piuttosto una parte, importante e ingombrante, del problema, piuttosto che una parte della soluzione. In questa delicata situazione, di cui sono responsabili tutti i dirigenti del Partito democratico, locale e nazionale (mi limito a ricordare il precipitoso e preventivo sostegno da parte di Zangheri e di Bersani a Delbono, neppure ancora candidato alle primarie), procede la ricerca di qualcuno che prometta di essere il meno interessato possibile alle sorti del partito (ovvero che non abbia né l’intenzione né l’interesse di purgare i responsabili) e il più capace possibile di rassicurare la città. Il fatto che i nomi che circolano, tranne quello di Prodi, non abbiano un alto profilo è, purtroppo, un bruttissimo segno. Dopo quindici anni di traccheggiamento, né l’area di centrosinistra né la città nel suo complesso hanno qualcosa di nuovo e di mobilitante da offrire. Se Bologna è ancora un laboratorio, vi si stanno sperimentando la crisi di un partito troppo a lungo dominante, salvo una inutile, brevissima alternanza, e, più in generale, la crisi della politica, in particolare, dei cosiddetti professionisti della politica. Che entrambe le crisi riguardino il Partito democratico è la logica, inevitabile conseguenza del tipo di partito che è stato frettolosamente assemblato tre anni fa.

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