Dopo le promesse di salvataggio europeo alla Grecia i mercati scommettono su chi sarà il prossimo
di Stefano Feltri
La Grecia non è stata salvata dall’Unione europea ma quasi. Francia e Germania hanno costretto la Commissione europea a promettere di non abbandonare Atene. Anche se è più probabile che, se necessario, a salvare la Grecia dal peso del suo debito pubblico e dalla sfiducia del mercato nella sua capacità di rifinanziarlo (cioè di vendere nuovi titoli di Stato quando quelli attuali arriveranno a scadenza) sarà il Fondo monetario internazionale, nonostante il presidente dell’Eurogruppo Jean-Claude Junker ha fatto capire che preferirebbe lasciarlo fuori dalla porta.
In questo weekend i trader e i funzionari dei ministeri dell’Economia lavoreranno per capire le implicazioni dell’impegno europeo, ma soprattutto per ragionare su quali sono gli altri paesi ad alto rischio. Gli indiziati sono sempre gli stessi: i P.i.g.s., Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. (A volte si aggiunge un’altra “i”, quella dell’Irlanda, che però è già nel baratro da oltre un anno).
CREDIBILITÀ. Come si capisce quando un paese entra in crisi? Per la Grecia tutto comincia il 7 dicembre, quando l’agenzia di rating Standard&Poor’s mette “sotto osservazione con implicazioni negative” il debito del paese. La Grecia ha un debito pari al 106 percento del Pil (quello dell’Italia è vicino al 116 per cento) e un deficit del 12 per cento del Pil (in un anno le spese superano le entrate per una cifra di circa 43 miliardi di euro). Osservando le mosse del governo e l’andamento dell’economia, i mercati hanno iniziato a convincersi che la Grecia avrebbe avuto grandi difficoltà a trovare compratori per i suoi titoli – cosa che all’ultima asta non è successa – e quindi meritava un rating più basso. La crisi parte quindi da una perdita di credibilità, non da un evento scatenante. Per questo l’economista Charles Wyplosz parla di “crisi che si auto-avverano”. L’ Economist ha fatto i conti di quanto sono credibili i paesi a rischio.
L’Italia ha un deficit molto inferiore a quello della Grecia (siamo al 5 per cento) ma un debito pubblico, in percentuale più elevato. Sottraendo il cosiddetto “servizio del debito” (cioè il costo degli interessi sui titoli di Stato in mano agli investitori), l’Italia nel 2010 non crescerà dell’1 per cento come previsto dal governo, ma arretrerà dell’1 per cento. La Grecia è nella stessa situazione: togliendo il costo del debito, andrà in recessione del 3,2 per cento. Altra cosa che ci accomuna ad Atene: la durata del debito. “Più vicina è la scadenza, prima arriveranno i problemi del debito”, scrive l’Economist, che calcola una media (ponderata) delle scadenze dei titoli di Stato dei vari paesi: per la Grecia è di 7,7 anni, per l’Italia di 7,2, per il Portogallo di 6,5, per l’Ungheria (altro paese salvato dal collasso dalla Banca centrale europea un anno fa) di 3,3, per la Spagna è di 6,7 anni. L’Italia ha quindi la seguente combinazione sfavorevole: tanto debito, che scade presto e che continua ad aumentare perché c’è un deficit che non si riduce. Quindi rifinanziare il debito costerà molto.
ECONOMIA REALE. Quali sono le conseguenze di questa condizione precaria nel mondo reale? Più risorse vengono drenate verso il debito pubblico, minore è il sostegno all’economia che lo Stato può garantire. E se questa instabilità finanziaria dovesse portare al default di uno Stato (cioè all’ammissione che non rimborserà i creditori, come ha fatto l’Argentina nel 2000), ci saranno nuove crisi bancarie, visto che le banche investono sempre molto in titoli di debito pubblico perché (di solito) sono a basso rischio. “Se questo dovesse accadere – scrive Wyplosz sul blog Voxeu.org – si scatenerebbe una nuova recessione in Europa con effetti forse anche sugli Stati Uniti”.
Senza arrivare a questi scenari apocalittici, basta vedere i dati pubblicati dall’Istat in questi giorni per capire cosa sta succedendo all’Italia. In attesa che il commercio internazionale riparta, l’economia reale sta sprofondando. Lo aveva detto la Banca d’Italia in una sua ricerca alla fine del 2009: la produzione industriale è tornata ai livelli del 1986. Mentre la recessione ha fatto regredire Francia e Germania di 12 e 13 trimestri per quanto riguarda la produzione, l’Italia ne ha persi 92. E lo confermano i dati definitivi sul 2009 dell’Istat: il Pil è diminuito del 4,9 per cento, ma nei settori strategici per la tenuta del paese il tracollo è stato sei volte maggiore. Nella metallurgia la produzione ha registrato un calo del 29 per cento, nelle materie plastiche del 20, nel settore “fabbricazione di mezzi di trasporto” del 25 per cento, nella chimica del 12. La categoria dei beni intermedi, da sempre quella più pesante nell’export italiano, ha registrato un segno negativo del 24,9 per cento. E non possiamo neppure affidarci alla ripresa tedesca – nostro grande partner commerciale – visto che ieri la Germania ha annunciato di aver chiuso il 2009 con il Pil in calo del cinque per cento. Quindi l’Italia si trova a essere tra i paesi più esposti dal punto di vista finanziario e con l’economia reale più sofferente (perfino la Spagna, dopo lo scoppio della bolla immobiliare, ha chiuso il 2009 meglio di noi: -4,8 per cento). Da lunedì si capirà se i mercati, che finora si sono concentrati sulla salute della Grecia, inizieranno a preoccuparsi anche per quella dell’Italia.
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