di GIUSEPPE D'AVANZO
"Una delle più colossali frodi poste in essere nella storia nazionale". Se soltanto si prende in considerazione come, con quali parole e intensità, i pubblici ministeri di Roma definiscono l'affaire che travolge oggi Fastweb e Telecom, si può comprendere a che punto siamo. Per provare a dirlo, occorre mettere in fila quel che accade. Gli arresti in flagranza di amministratori con la "bustarella" in tasca. Lo scandalo che ha svelato la corruzione e il malcostume nascosto dal potere d'eccezione concesso alla Protezione civile di Guido Bertolaso in nome del "fare" e del miracolismo mediatico. I fondi neri e il riciclaggio per migliaia di milioni di euro prodotti dal business illegale delle due società telefoniche. I brogli elettorali e, addirittura, l'ingresso in Parlamento di un uomo selezionato da un clan mafioso. La cronaca racconta, a chi vuole sentire, che corruzione e malaffare segnano come una malattia la nostra vita pubblica. È vero (e meno male), che non la definisce nella sua interezza, ma appunto è una patologia grave e diffusa che minaccia l'esistenza e lo sviluppo del Paese.
Dovremmo finalmente prenderne atto senza ipocrisia. La buona politica ne dovrebbe prendere atto. La buona società dovrebbe imporre l'urgenza di affrontarla. Si dovrebbe finalmente mettere in un canto la filastrocca, recitata dal presidente del Consiglio, ripetuta come una litania dai suoi corifei, rilanciata dai media dominati o docili. Quella fiaba interpreta e altera il degrado della vita italiana come artificio politico, come espediente narrativo per disturbare il manovratore. Come il metodo cinico per danneggiare gli interessi e la credibilità internazionale del Paese (anche questo è stato avventurosamente detto).
Per un decennio, si è voluto raccontare la corruzione italiana come una storia definitivamente chiusa con il crollo della Prima Repubblica. Per un lustro - e ancora con maggior pervasività e petulanza nello scorcio di questa ultima legislatura - le immagini venute fuori da un caleidoscopio di verità rovesciate hanno rappresentato la patologia italiana come l'invenzione di un pugno di magistrati ostinatamente tentati dal potere, come la trovata di una politica e di qualche querulo giornale a corto di argomenti, modernità, cultura e visione. Il coinvolgimento nel mondo illegale del gotha delle società telefoniche - giovani interpreti della contemporaneità, energie e intelligenze affacciate nello stretto sentiero che separa il non più dal non ancora - dimostra che dalla nostra malattia non siamo guariti nel 1994. Anche la nuova generazione di uomini d'affari è stata afferrata dal gorgo che non si è voluto eliminare. Per quindici anni politica e giustizia si sono dati battaglia e, nel rumore dello scontro, sono andate smarrite le ragioni che hanno reso e rendono fragile la politica e robusto, invasivo l'intervento giudiziario. Si è voluto far credere che il problema riguardasse soltanto gli uomini in toga, la loro volontà di potenza. Per anni, e ancora poche settimane fa, è parso che l'assoluta priorità non fosse prosciugare i pozzi neri, distruggere la rete di connivenze e omertà, dare luce all'invisibilità e alla segretezza, sempre necessarie alle dinamiche e all'espansione del malaffare. Urgente - ci hanno detto - era assicurare una protezione immunitaria al ceto politico. È la mitologia e il disegno politico che una realtà degradata e fatti ostinatissimi hanno sciolto nell'arco di poche settimane mutando il segno del clima politico e forse il destino della legislatura.
Oggi all'ordine del giorno non c'è più il ripristino dell'immunità dei parlamentari. Oggi appare intollerabile che la corruzione sia considerata da un disegno di legge criminofilo (il processo breve, già approvato in un ramo del Parlamento) un reato non grave, una pratica così penalmente lieve e socialmente risibile da rendere accettabile che i tempi processuali per aggredirla siano contingentati. La concretezza della patologia italiana, la lunga catena di scandali che inchiodano il Paese davanti a uno specchio, dovrebbe renderci consapevoli di quel che in Occidente tutti sanno: la corruzione crea una quantità di criticità che distruggono le istituzioni, la vitalità della democrazia, i valori etici, la giustizia. Minaccia la stabilità e la sicurezza della società.
Discutere di corruzione - ne sono consapevoli a Milano come a L'Aquila, in Piemonte come in Calabria - vuol dire interrogare i modi della convivenza civile, della nostra organizzazione sociale, della legittimità delle istituzioni, della trasparenza dell'azione dei policy maker; di competitività e credibilità internazionale del Paese. Vuol dire discutere di quelle regole che il mito ideologico berlusconiano ha ritenuto inutili o irrilevanti, soltanto legacci capaci di imbrigliare le energie vitali. Significa ricordare che la corruzione (lo si vede nello scandalo della Protezione civile) tende a occupare gli spazi di discrezionalità lasciati a singoli individui, politici, amministratori o comunque pubblici ufficiali e in modo particolare affiora dove maggiormente si concentrano il potere politico e potere economico. Vuol dire ripristinare, al di là dell'intervento della magistratura che arriva sempre dopo, il canone della responsabilità, sistemi di controllo efficienti e credibili, garanti che sappiano proteggere le regole e prevenire i comportamenti e i "sistemi" patologici, gli abusi, i conflitti di interesse, le distorsioni del mercato.
A questo punto, dunque, siamo oggi, e dobbiamo soltanto chiederci se saremo in grado di venirne fuori prima che un'altra Repubblica cada sotto il peso della sua debolezza. Con un salto all'indietro, siamo ritornati alla casella di partenza. Al 1994, quando morì l'illusione di un risanamento del Paese.
(24 febbraio 2010)
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