di Fulvio Abbate
Si è imbiancato, Corrado Augias! Gli è così venuto un bell’aspetto, severo, da “antico romano”. Lo stesso genere di volto destinato a suscitare un celebre piccolo saggio, “I romani al cinema”, del grande semiologo francese Roland Barthes. Già, perché mai è molto raro beccare personaggi calvi nelle pellicole mitologiche? È un po’ invecchiato, Augias: nella mutazione dei suoi tratti somatici, c’è modo di intuire, se non proprio la sconfitta, comunque la condizione sempre più minoritaria di certa televisione “intelligente”, dove cioè si esercita il pensiero, dove non si ha paura di affrontare temi, argomenti, questioni, nodi assoluti. E chi se ne frega dell’Auditel. Del giusto mezzo. Temi, nodi, ecc., tuttavia necessari al vivere quotidiano, a meno che non si voglia restare inchiodati alla banalità che, mentre Augias mette in piedi negli studi di RaiTre con “Le storie”, soffrigge dall’altro lato del globo del servizio pubblico: una padella, un tegame, un mestolo, e tre persone affaccendate a santificare la tavola, in nome della normalizzazione. Alimentare, ma pur sempre tale. La vita come un’insalata, senza sale. Augias me lo ricordo al tempo di “Babele”, dove, da bravo conduttore-narratore-divulgatore parlava, ragionava e ancora si interrogava di libri, indimenticabile una puntata-duetto con Aldo Busi armato di cannolo e veletta. Anche allora, sebbene non sembrasse ancora un senatore romano (antico), anche allora Corrado indossava i suoi abiti di gusto e stile “British” - il tweed come messaggio quasi “ideologico” - lo stesso gusto impeccabile che tuttavia portò il suo opposto mediatico, Gianfranco Funari, a dire che l’uomo, il professionista, il conduttore Augias vestiva “come un commesso d’antica libreria scolastica”. Cattiverie ormai remote, degne del tempo di una televisione soppressa strada facendo in nome dalla semplificazione sia berlusconiana sia veltroniana, le due facce della stessa banalità. Ieri, lì da Augias, cioè a Le storie di Cominciamo bene, si parlava di un tema fondamentale come la Fame, ben altro dall’Appetito che nel frattempo veniva offerto, assieme alle sue ricette, dalla già citata visione della Prova del cuoco. C’era così in studio un antropologo per ragionare meglio fra le nebbie del crudo e del cotto, e intanto le immagini finali di Totò in Miseria e nobiltà - gli spaghetti in tasca, la tarantella dei morti di fame - servivano a riannodare i fili di una memoria profonda, e per un istante almeno, grazie allo spazio di Augias, sembrava che pronunciare concetti “pesanti” non fosse un crimine, un crimine ai danni del palinsesto, della mediocrità degli autori che altrove fanno sì che il conduttore di fiducia blateri sciocchezze, di più, stronzate.
Davvero terribile, sentirsi naufraghi al centro di un’isola di sapere, colpevoli di pretendere un qualcosa che sia, lo dico banalmente, “cibo per la mente”. Proprio vero, il vecchio adagio nazista, perfetto per la televisione che cinge d’assedio i pochi minuti affidati a Corrado Augias: “Quando sento parlare di cultura tolgo la sicura al mio revolver”, verissimo e tristissimo. Grazie, Augias.
2 commenti:
è l'unico programma - seppur breve - che guardo, quando posso (a parte i films di notte)!
Gli italiani siamo diventati "quattro salti in padella", io mi sento così sotto questo andazzo politico e ci sto male!
Augias.. come antico senatore romano, non l'avevo mai guardato sotto questa luce, ma Abbate ha ragione. I senatori romani-antichi erano colti, poliglotti e combattivi.
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