di Marco Travaglio
Nell’inchiesta di Milano sulla fuga di notizie della famigerata telefonata Fassino-Consorte, c’è tutta la tragicommedia della politica italiana. Il leader del centrosinistra, nel luglio 2005, confabula al telefono con un chiacchierato assicuratore, tifando smodatamente per una scalata bancaria illegale a cui dovrebbe essere non solo estraneo, ma contrario (invece alterna il “noi” e il “voi”, confondendo i Ds e l’Unipol, e non fa una piega quando Consorte gl’illustra i trucchi adottati per controllare la maggioranza di Bnl senza lanciare l’Opa obbligatoria per legge).
Il leader del centrodestra, mentre tuona ogni due per tre contro le intercettazioni, riceve in casa sua per Natale il nastro con quella di Fassino e Consorte, ne coglie al volo la portata ricattatoria e sputtanatoria in vista della campagna elettorale e promette a chi gliel’ha donato “l’eterna gratitudine della mia famiglia”.
Una settimana dopo Il Giornale della sua famiglia riceve la bobina in pacco anonimo e la sbatte in prima pagina col titolo “Abbiamo una banca?”.
Fassino, che alla notizia di sue chiamate intercettate aveva detto di non aver nulla da temere e di pubblicarle pure, appena ne viene pubblicata una strilla al complotto: dimostrando così che aveva molto da temere, almeno sul piano politico-mediatico-morale, e che col suo tifo da stadio si era reso ricattabile e aveva messo in pericolo la sua coalizione. Anche senza prevedere che Consorte fosse ascoltato, nell’estate 2005 era arcinoto che il patron di Unipol si muoveva in festoso concerto con personaggini del calibro di Fiorani, Ricucci, Gnutti e Coppola, i furbetti del quartierino legati a filo doppio a Berlusconi. Senza contare che Consorte si avvaleva dei servigi del commercialista Zulli, socio di Tremonti.
Insomma la destra sapeva benissimo ciò che faceva la sinistra. E se la sinistra non sapeva ciò che faceva la destra, peggio per lei: bastava leggere i giornali, che avevano ampiamente avvertito questi fresconi della compagnia con cui andavano a braccetto.
L’uscita dell’intercettazione Fassino-Consorte sul Giornale a tre mesi dalle elezioni politiche costò all’Unione centinaia di migliaia di voti: a dicembre 2005 il Professore era avanti di 10 punti nei sondaggi sul Cavaliere; la notte del voto, il vantaggio si era assottigliato a uno zero virgola, anche grazie alle gesta telefoniche di Fassino e D’Alema.
Ora si scopre che le bobine furono consegnate in anteprima al Cavaliere quand’erano ancora talmente segrete che la Procura non le aveva fatte neppure trascrivere. E finirono subito sul Giornale di Belpietro. Il quale fece benissimo a violare il segreto e a pubblicarle: i giornali sono lì apposta.
Il fatto curioso è che oggi Libero di Belpietro denunci con articoli-spia Antonio Massari, reo di aver raccontato sul Fatto le intercettazioni segrete di Trani, e ne invochi l’arresto. Che differenza c’è fra lo scoop del Fatto su Berlusconi e quello del Giornale su Fassino? Nessuna, a parte che Il Fatto pubblica tutte le notizie che trova, sulla destra e sulla sinistra. Libero (si fa per dire) solo sulla sinistra. E a parte l’uso che di quegli scoop fanno i politici.
Sul caso Ds-Unipol il Banana fece tutta la campagna elettorale del 2006, ben sapendo che gli scandali della sinistra danneggiano la sinistra, infatti recuperò 10 punti.
Sul caso Agcom-Annozero la sinistra tace o balbetta, convinta che gli scandali di Berlusconi favoriscano Berlusconi. E sulla fuga di notizie del caso Unipol sia Bersani sia Fassino commentano: “Berlusconi non ama le intercettazioni legali, ma quelle illegali”. Solenne sciocchezza: erano legali anche quelle del caso Unipol. Fassino evoca la Telekom Serbia, che c’entra come i cavoli a merenda: lì non c’erano intercettazioni, ma calunnie del truffatore Marini; nel caso Unipol c’erano le parole intercettate di Fassino, D’Alema e Latorre, che hanno irresponsabilmente esposto al discredito il centrosinistra, eppure sono ancora lì in prima fila, senza mai aver chiesto scusa. In un paese governato da ricattatori, chi si rende ricattabile è complice.
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