di Marco Politi
E’ IL PAPA DELLA PAROLA, è il Papa delle crisi. Da intellettuale scandaglia il rapporto tra fede e ragione, ammettendo le patologie della religione, da leader si scontra ciclicamente con l’opinione pubblica del mondo. Cinque anni dopo l’appassionato grido sulla “sporcizia nella Chiesa”, che segnalò il suo imminente arrivo al pontificato, Joseph Ratzinger è costretto ad ascoltare dall’Irlanda e dalla Germania, ferite dagli scandali di pedofilia del clero, appelli alle dimissioni. Era già successo un anno fa dopo l’infelice battuta sul preservativo e l’Aids. Allora fu la Francia che pose il pontificato sulla bilancia e il risultato fu allarmante. Un sondaggio del Parisien rivelò che se nel 2008 il 53 per cento dei francesi era favorevole al Papa, nel marzo 2009 il 57 per cento gli era contrario.
Il Journal de Dimanche registrò la richiesta di dimissioni da parte del 43 per cento dei cattolici francesi, mentre il 49 per cento riteneva che Benedetto XVI “difende male i valori del cattolicesimo”. Il quotidiano cattolico La Croix aprì una discussione pubblica sul papato. Sicuramente le dimissioni, da parte di chi le agita, sono uno slogan ad effetto. E certo la sua Lettera ai vescovi irlandesi mostra un Pontefice deciso a combattere coraggiosamente e senza indulgenze gli scandali del clero.
Resta il fatto che il suo pontificato divide il mondo cattolico.
Lo spacca tra fautori entusiasti e una maggioranza poco convinta del corso imboccato. Fa impressione incontrare ancora dopo cinque anni di regno uomini e donne, che domandano: “Ma com’è questo Papa?”. E’ un aspetto paradossale e in un certo senso tragico dell’attuale pontificato. Ratzinger nell’intimità non corrisponde affatto al suo stereotipo. E’ sensibile, timido persino, caloroso, pieno di attenzione e anche di brio nei confronti dell’interlocutore. Niente Panzer-Kardinal, niente “cane pastore” della fede. Al contrario, nelle sue encicliche si sforza di trasmettere il concetto che il cristianesimo nella sua essenza è una “religione dell’amore” e che non ci si può accostare all’altare dicendo di amare Dio, se non si ama il proprio prossimo, se non si opera per la giustizia, la solidarietà, il rispetto della dignità di ogni essere umano.
Un messaggio cruciale nell’epoca di fondamentalismi cruenti.
Nell’ultima enciclica ha chiesto un governo mondiale dell’economia a fronte del liberismo selvaggio. Né si può dimenticare la proposta di un confronto con agnostici e non credenti, come ribadì nel dicembre scorso. Eppure, in questo quinquennio, ogni stagione è stata segnata da crisi devastanti. Come se alla statura del pensatore e del predicatore, toccante quando spiega il Vangelo in una parrocchia o dinanzi ad un pubblico agnostico, non corrisponda la tempra – si potrebbe dire il gusto – del leader geopolitico. Guidare una comunità di oltre un miliardo di fedeli non si può fare solo dal pulpito o dallo scrittoio. Nella storia della Chiesa i caratteri non si equivalgono. Sant’Ambrogio aveva anche il piglio del politico, sant’Agostino molto più quello del filosofo e maestro di fede.
STRAPPI E RICUCITURE
Di fatto il primo quinquennio ratzingeriano è stato caratterizzato da uno stato di crisi ricorrente. Lo scontro con l’Islam dopo la citazione sprezzante di un imperatore bizantino nei confronti di Maometto, nel discorso di Ratisbona. (Ci vollero tredici correzioni al testo dell’intervento e scuse ufficiali ai rappresentanti diplomatici e religiosi dell’Islam per riportare la pace).
La crisi con l’ebraismo per la preghiera del Venerdì Santo nella messa tridentina riportata in auge.
La nuova crisi con l’ebraismo per la riammissione in seno all’episcopato del vescovo negazionista Williamson, ignorando le sue posizioni ampiamente diffuse su Internet.
La terza crisi con l’ebraismo per l’esaltazione di Pio XII.
Lo scontro furibondo in seno al mondo cattolico per la cancellazione della scomunica ai vescovi lefebvriani, attuata all’insaputa degli episcopati interessati e contro il parere della maggioranza del collegio cardinalizio che aveva chiesto ai seguaci di Lefebvre un atto preventivo di adesione ai testi del Concilio.
L’imposizione di parificare la messa tridentina (che considera i fedeli “gregge”) con la messa di Paolo VI, che mette in luce il carattere comunitario del rito eucaristico.
E ancora, lo scontro con l’opinione pubblica mondiale sulla questione del preservativo: con l’effetto di provocare – per la prima volta nell’epoca contemporanea – un’ondata di proteste di governi democratici e di organismi internazionali contro la Santa Sede.
Fino ad arrivare all’inedito assoluto: una mozione approvata dal parlamento del Belgio contro le dichiarazioni papali.
Ogni volta c’è poi un passo nella direzione opposta, magari la preghiera con l’imam nella Moschea Blù di Istanbul o il viaggio in Israele.
Ogni volta i fautori del Papa indicano le tracce di un “malinteso”.
Ratzinger è un convintissimo fautore dei legami ebraico-cristiani (il suo primo atto da pontefice fu una lettera agli ebrei di Roma). Ratzinger sostiene la necessità di un dialogo con l’Islam. Ratzinger condanna in maniera categorica il carattere criminale e demoniaco della Shoa. Ratzinger (a proposito dei lefebvriani) vuole favorire l’unità in seno alla Chiesa…
Sono solo errori di comunicazione, come si sente spesso ripetere?
Sarebbe già grave, e certo è ricorrente il non ascolto del polso dell’opinione pubblica dentro e fuori la Chiesa. Come se un’impostazione dottrinaria dell’agire ritenesse superfluo acquisire ciò che la tradizione cattolica chiama il consensus fidelium, l’adesione della comunità credente. Ma la sistemicità delle crisi fa pensare ad un problema di governo nella Curia.
Benedetto XVI ha preso come braccio destro il suo ex vice al Sant’Uffizio, il segretario di Stato cardinale Bertone. Uomini nominati in posti chiave come la Congregazione per la Dottrina della fede o l’Evangelizzazione dei popoli, i cardinali Levada americano e Dias indiano, non hanno portato – come faceva in maniera straordinaria Ratzinger da porporato – la loro esperienza sulla scena pubblica, interloquendo con la società. Un cardinale di spessore come il brasiliano Hummes, portato in Vaticano a dirigere la Congregazione per il Clero, è stato immediatamente silenziato appena ha accennato che il celibato non è un dogma. Regna l’atmosfera di “non disturbare il manovratore”.
UNA TRANSIZIONE SENZA RIFORME
Così nulla si innova. Benedetto XVI punta sul rinnovamento interiore del credente. Il suo pessimismo nei confronti delle riforme strutturali fa sì che non si parli dell’ordinazione di uomini sposati (che da teologo sosteneva) o della riforma delle nullità matrimoniali o della comunione ai divorziali risposati. Il suo pessimismo nei confronti dei riformisti gli ha fatto denunciare giorni fa l’ “utopismo anarchico” di certe correnti del Vaticano II. Soprattutto, sotto Benedetto XVI, non viene affrontato il problema della collegialità: che vuol dire partecipazione dei fratelli vescovi alla guida della Chiesa universale e alle scelte di fondo del pontificato. E’ il problema chiave della Chiesa nel mondo odierno. Eppure da cardinale, alla vigilia della sua elezione, aveva affermato pubblicamente: “Sempre più si vede che una Chiesa dalle dimensioni mondiali, e in questa situazione del pianeta, non può essere governata in modo monarchico”. Esattamente ciò che avviene. Dove va il pontificato? Sorprese e colpi d’ala sono sempre possibili. Intanto sembra muoversi a zig zag. Difficile indovinare cosa ci sia all’orizzonte.
Nessun commento:
Posta un commento