

di Malcom Pagani
I corsi lo considerano un arabo, gli arabi un corso. Lui, Malik El Djebena (il bravissimo Tahar Rahim), diciannove anni inaugurati con una perquisizione corporale e una pena detentiva di 72 mesi da scontare in un carcere francese, chi sia veramente, ancora non lo sa. E’ analfabeta, pudìco, destinato a servire chi, nel microcosmo carcerario, comanda indifferentemente guardie e detenuti. Alla prima ora d’aria disponibile, ottiene calci e pugni da due balordi. Alla seconda occasione, gli va anche peggio. Cèsar Luciani, (Niels Arestrup, ovale in bilico tra Dino De Laurentiis e Jack Nicholson, indimenticabile) il corpulento boss indipendentista che odia
TECNICA. In ogni inquadratura, occludendo a volte con un eloquente nero lo schermo, sperimentando come già in passato la tecnica della mano negra, il regista parigino seziona la verità, consapevole che la realtà non si fa mai codificare completamente. Audiard offre un punto di vista neutro, originale, giocando con biografie e immagini, salti spazio-temporali e quadri crudi, stando attento a non prendere mai posizione. Il presente e l’evoluzione dei personaggi sono descritti con disarmante precisione, gli stessi sembrano agire autonomamente come in una libera Repubblica della crescita individuale, in cui all’errore corrisponde la punizione e alla cosa giusta, quasi mai il plauso. Politicamente, l’amorale Profeta abita nella zona del teppismo kubrickiano. In galera non si impara nulla che non sia un futuro di delinquenza, non c’è redenzione né educazione possibile, perché l’universo carcerario costringe al darwinismo, alla selezione naturale. L’amore è un dvd di contrabbando per masturbarsi nel vuoto di due metri scarsi e per non morire, l’unica maniera per conservare dignità e rispetto di se stessi, è fottere tutti gli altri. Te lo insegnano, lo introietti. I razzisti sono razzisti (e lì dentro, tra una porta metallica e una violazione dell’intimità, lo sono quasi tutti), i cattivi perfidi e la bontà, un lusso per imbecilli.
L’unica certezza è non fermarsi, alimentare l’avidità chiudendo spazi e manovre ai rivali. Tutti gli espedienti (come ai protagonisti del racconto) servono a Jacques Audiard, per edificare la sua laica partita a scacchi con l’oggetto dell’investigazione. Suoni, cromatismi, dialoghi. Solo quando tenta il salto nella dimensione onirica, giocando con le allegorie in un’ansia di accumulazione che dilata il film a 150 minuti, l’architrave complessiva perde qualche sostegno.
Normale per chi rischia moltissimo e costella di citazioni una galassia stremante e personale, in cui Brecht e Sergio Leone, Jean Gabin e i marsigliesi, Il Kassovitz de L’odio e Scorsese, trovano comode poltrone per sdraiare ricordi e suggestioni. Però, in questa quadriglia senza soste, in cui non accade mai ciò che ti aspetti avvenga davvero, ad Audiard si perdonano volentieri anche gli eccessi. Perché la macchina da presa non si ingolfa e sporca il quotidiano con movimenti a mano che trascinano dentro la storia, le gradazioni emozionali toccano le più diverse tra le corde e i temi alti (emigrazione, annichilimento dell’individuo, senso di colpa, sistema di contenzione criminoso) atterrano sullo spettacolo puro, in un’osmosi continua.
Il manierismo è ricercata scelta stilistica e il finale, in cui Malik esce scortato dalla sua linea d’ombra con una gang prona, risoluta a seguirne l’endemico carisma, l’ennesima provocazione ai generi, la prova definitiva del coraggio di chi ha immaginato e disegnato situazioni, in stato di assoluta grazia.

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