di Pierfranco Pellizzetti
Bacchettate nei giorni scorsi, le sedicenti tesi riformiste del responsabile giustizia Pd Andrea Orlando meritano solo l’archiviazione. Magari con l’aggiunta di qualche considerazione sul dilettante allo sbaraglio che giocava all’Hans Kelsen della Val di Magra. E sugli altri dalemini.
Lo dico per conoscenza diretta: lo spezzino Orlando resta un bravo ragazzo, finito nei marosi della politica senza neppure le tre lezioni preliminari di galleggiamento. Anni fa facemmo a capocciate nel talk-show di una tv locale sul programma dell’Ulivo, di cui era qualcosa come il portavoce. All’obiezione che si erano dimenticati del lavoro in quanto soggetto politico, l’Orlando mi invitava con sufficienza a studiare le carte: la Summa Theologica ulivesca prevedeva aumenti dei salari minimi di qualche decina di euro. D’obbligo replicargli che erano semplici “risarcimenti”, mentre io mi riferivo a tutt’altro: le crescenti morti bianche, la sicurezza, i diritti del e nel lavoro. Da quell’incidente iniziò un dialogo via mail che me lo fece conoscere un po’ meglio: una biografia tipica dei rampanti di partito, ragazzotti che leggiucchiano i titoli dei giornali e mai un libro, cresciuti nei corridoi in penombra di sedi sempre più fatiscenti nella convinzione che il mondo si riduce al cerchio stregato del politicante. Insomma, furbetti del partitino come polli in batteria.
Ennesima conferma che qui siamo proprio per la qualità umana di chi è preposto alla guida di una società democratica. Quelli che nel 1993 reputavano Silvio Berlusconi “la nostra Thatcher” e – comunque – da trattare con riguardo perché bloccava la discesa in campo di un avversario ben più temibile: nientepopodimenoche Mario Monti! Comunque assunti perentori, sempre e nonostante tutto. Poi ripresi a pappagallo dagli ipotetici rimpiazzi generazionali. Fatto sta che in Italia latita qualcosa di somigliante a un cursus honorum, un percorso d’apprendimento. Non certo le scuole e i corsi di formazione politica: luoghi di puro indottrinamento alla banalità. In pratica si sale soltanto grazie a meccanismi cooptativi: una selezione secondo criteri che variano dall’affinità umana nei suoi tratti peggiori alla servizievole disponibilità nel gioco sporco a favore del proprio boss.
Il vero motivo per cui “i nuovi” sono sempre peggio dei “vecchi”. Ammettiamolo: c’è una distanza siderale tra i vari D’Alema-Veltroni-Bersani e un Enrico Berlinguer o – quasi indicibile – tra PierFurby Casini e i dorotei cui portava la borsa. E la corsa al peggio continua.
Così poveri ragazzi vengono lasciati a far danni maneggiando cose più grandi di loro. Qualcuno ha notizie di Debora Serracchiani? Quella che doveva guidare il rinnovamento generazionale e lascia solo il ricordo di una frangetta sbarazzina? Adesso arriva il bersaniano ex verde Carlo Menguzzi a caldeggiare la terapia del ringiovanimento grazie all’individuazione di altri due Nichi Vendola. Al nord il sosia sarebbe lui: ma va là. Al centro l’avatar vendoliano si chiamerebbe Matteo Renzi, il sindaco di Firenze che votò contro la cittadinanza onoraria a Peppino Englaro dichiarandola “scelta che divide”. Alla faccia del nuovo che avanza… Nient’altro che figli della provincia profonda, tesi a perseguire personali ascese puntando sulle ataviche virtù furbesche – tra Bertoldo e Arlecchino – incistate nella loro mentalità; trasformate in rudimentale cassetta degli attrezzi intellettuali.
Sicché li troviamo estatici davanti al luccichio del caleidoscopio mediatico di cui intuiscono l’importanza ma non il funzionamento. Mentre ai berluscones è sufficiente detenerne il know how basico per sembrare maghi del consenso, dei colossi della politica. Non gli illusionisti della realtà virata in reality mediante la compressione forzata attraverso il tubo catodico. Contro cui i vecchi furbetti del partitino si rivelano inermi quanto gli amerindi di fronte ai conquistadores, gli armigeri di Cortés e Pizarro. E i “nuovi” non sono da meno.
Nuovi? Suvvia, cloni venuti male.
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