ATTILIO BOLZONI
Se uno si chiama Piromalli o Molè, Pesce o Bellocco, tutte le cassaforti si aprono e il credito è garantito. Se però è lo Stato a chiedere un prestito, le banche scappano e soldi non ce ne sono mai. Così falliscono, in Calabria, le società confiscate ai boss.
E' la legge della 'ndrangheta. E' la sua influenza anche quando i capi delle famiglie finiscono in carcere e i loro beni sotto sequestro. Sul mercato, la 'ndrangheta vince sempre. Gli istituti di credito che davano fiducia ai boss voltano le spalle allo Stato, le compagnie assicuratrici ritirano le garanzie, i fornitori pretendono all'improvviso pagamenti immediati. Un'impresa tolta ai clan non ha quasi mai futuro, è inevitabilmente destinata al tracollo: alla rovina. Piccola o grande, con cinque o con cento dipendenti, è sempre sull'orlo del crac perché nessuno la vuole aiutare. "L'intero sistema delle relazioni economiche, banche in testa, di fronte a un provvedimento della magistratura, si pone in atteggiamenti di totale chiusura invece di sentirsi maggiormente tutelato", denuncia Domenico Larizza, un amministratore di beni mafiosi di Reggio Calabria che è testimone della bancarotta di ogni azienda che dalle mani dei capibastone passa sotto la gestione dello Stato. Una vergogna che ha sollevato qualche giorno fa con una lunga lettera a Il Quotidiano, uno sfogo per denunciare la posizione degli istituti di credito di fronte a bar e supermercati, imprese edili e attività commerciali che cambiano padrone.
E' paradossale ma è ciò che avviene, ogni giorno, in Calabria. Operatori economici e finanziari che fanno sempre buoni affari con le società di mafia e, un attimo dopo il sequestro o la confisca, si dileguano. Alimentando le solite voci, i soliti luoghi comuni sulla potenza dei boss. "E' scandaloso, così il messaggio che arriva all'uomo della strada è sempre lo stesso: la 'ndrangheta dà lavoro e lo Stato la disoccupazione, la 'ndrangheta garantisce il benessere e lo Stato la miseria", dice Larizza che in questi giorni combatte la battaglia per cercare di salvare un'azienda di 70 dipendenti con 20 milioni di fatturato l'anno. E' la Nifral srl sequestrata a Pasquale Inzitari, ex consigliere provinciale dell'Udc condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. Racconta Larizza: "Sono anche il custode giudiziario di un'attività in franchising a Rosarno che apparteneva a un boss. Dopo il sequestro la società ha ritirato subito il contratto e, quando l'attività era finalmente amministrata dallo Stato, la società ha preteso di togliere perfino le proprie insegne". E' un supermercato di Rosarno, affiliato allo Sviluppo Discount spa ed era gestito da Alfredo Romeo del clan Bellocco.
Ma è con le banche che soprattutto devono fare i conti gli amministratori giudiziari: "Ci troviamo di fronte a un boicottaggio generale, anche se giuridicamente legittimo, che di fatto ci impedisce ogni concreta possibilità di gestione con il rischio di condurre l'impresa sempre verso la chiusura".
In Italia le aziende confiscate ai boss delle mafie sono 1185. Il 38 per cento sono in Sicilia, il 19 per cento in Campania e il 14 per cento in Lombardia. In Calabria sono 95. La denuncia di Domenico Larizza era stata anticipata alla fine dell'anno scorso da Antonio Maruccia, il commissario straordinario del governo per la gestione dei beni sottratti alle mafie. Scriveva: "I creditori, e in particolare gli istituti bancari, a seguito del provvedimento di sequestro, tendono a perdere fiducia nelle potenzialità di durata e di competitività economica delle stesse aziende e riducono gli apporti finanziari e il credito erogabile". Sono le banche che fermano la rinascita delle attività fuoriuscite dal circuito mafioso.
In attesa che la neo Agenzia nazionale per la destinazione dei beni confiscati (la sede centrale è stata inaugurata proprio a Reggio Calabria il 21 marzo dal ministro degli Interni Maroni) si metta in moto, che cosa si può fare per evitare il fallimento di aziende che non fanno più odore di 'nadrangheta? Risponde il procuratore capo della repubblica di Reggio Giuseppe Pignatone: "Ci vuole un'assunzione di responsabilità delle banche a livello centrale. Quello che succede non è accettabile, i vari istituti devono controllare cosa accade". E il procuratore lancia una proposta: "Se da un lato alcune imprese di mafia si sono rivelate solo lavanderie per riciclare denaro sporco, molte altre aziende potrebbero superare i loro problemi se grandi operatori economici, le coop ma anche le catene di supermercati, con aiuti del governo - per esempio incentivi fiscali - decidessero di gestire direttamente quelle aziende".
Un primo passo. Ma l'ostacolo vero, a detta di tutti, restano le banche. L'ultima parola a Luigi Ciotti di Libera, che conosce tutti i meccanismi infernali del percorso che segue ogni bene confiscato: "Il vero problema è che una grandissima quantità di quei beni, fra il 30 il 35 per cento, non sono utilizzati perché sono sotto ipoteca delle banche. Sono le ipoteche bancarie che, in tutta Italia, stanno bloccando l'uso dei beni confiscati. La nuova Agenzia deve trovare, soprattutto, una soluzione a questo problema". E si chiede don Luigi: "Ma chi li ha concessi i mutui o i prestiti a quei signori e ai loro prestanome? Non sono state quelle stesse banche che adesso hanno ipotecato tutto?".
(10 aprile 2010)
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