10/4/2010
LUIGI LA SPINA
La lettera scritta nel 1985 dall’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger, è una ulteriore conferma. A lungo il Vaticano, «per il bene della Chiesa universale», come si legge in quel testo, decise di coprire nel silenzio lo scandalo dei preti pedofili. Ma questo documento dimostra anche che il futuro Benedetto XVI si uniformò a quella linea di riserbo adottata da Giovanni Paolo II per evitare che i nemici della Chiesa strumentalizzassero quelle vicende. L’ultima rivelazione proveniente dagli Stati Uniti colpisce la Santa Sede e il Papa in momento di grave difficoltà. La sofferenza di Benedetto XVI è comprensibilmente acuita da una specie di pena del contrappasso che, in questi giorni, sta crudelmente subendo.
Proprio su di lui che, da quando è salito al soglio pontificio, ha cercato di attuare una svolta di trasparenza e di denuncia pubblica per questi scandali, si abbatte quotidianamente una bufera di attacchi che non sembra aver mai fine. Proprio su di lui, sulle spalle esili un Pontefice anziano e stanco, incombe l’onere di difendere la Chiesa, assumendosi, come un Papa è costretto a fare, anche il carico di responsabilità passate, in circostanze storicamente diverse. Per comprendere, infatti, i motivi della resistenza a denunciare pubblicamente i casi di pedofilia in ambito ecclesiastico all’epoca del pontificato di Papa Giovanni Paolo II, occorre ricordare l’esperienza pastorale in Polonia di Karol Wojtyla. Un Paese dell’Est europeo, allora sotto il dominio di un regime comunista che spesso usava la calunnia a sfondo sessuale contro i sacerdoti per minare il rapporto di fiducia dell’opinione pubblica locale nei confronti della Chiesa.
Ecco perché, in tempi in cui il nemico esterno, l’ateismo comunista, combatteva la presenza cattolica in quelle terre con tutti i mezzi, anche i più spregiudicati, sembrava opportuno cercare di indagare su questi scandali, veri o falsi che fossero, solo all’interno della comunità ecclesiale. Un atteggiamento di prudenza e anche di diffidenza nei confronti delle accuse di quel genere contro i preti che Giovanni Paolo II conservò anche quando fu eletto Papa. Il segnale più forte di un cambiamento verso la trasparenza e la denuncia pubblica fu dato proprio da Benedetto XVI nel suo viaggio negli Stati Uniti avvenuto nell’aprile del 2008. Papa Ratzinger, con un gesto che suscitò perfino un certo sconcerto e qualche critica nell’episcopato americano, volle incontrare le vittime degli abusi sessuali compiuti dai sacerdoti in quel Paese e, con loro, unirsi in preghiera, mano nella mano. L’attuale difficoltà della Chiesa e dello stesso Papa ad uscire dall’assedio di accuse che sembra sommergerli deriva da una reazione difensiva sbagliata.
Costruita su tentativi di minimizzazione o di giustificazioni, assai improbabili, per le mancate denunce nei confronti di chi si è reso colpevole di questi terribili delitti contro i più deboli, i bambini. Intessuta di sconcertanti gaffe comunicative, come se le manifestazioni di pedofilia anche fuori del mondo ecclesiastico riducessero lo scandalo sulla Chiesa. Ecco perché, a questo punto, al Vaticano non resta che una via d’uscita da questa bufera: la consapevolezza e la volontà di dover pagare un prezzo molto pesante per ristabilire un clima di fiducia e di credibilità nei confronti dell’istituzione ecclesiastica. Con una assunzione di responsabilità, alta e forte, per quanto è avvenuto in passato, accompagnata da solenni scuse e richieste di perdono. E la dimostrazione che l’assoluta trasparenza, d’ora in poi, non avrà alcuna eccezione. Per nessuno e in nessuna circostanza.
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