giovedì 8 aprile 2010

Chi non firma è perduto


di Marco Travaglio

Ieri Giorgio Napolitano ha firmato l’undicesima legge vergogna in quattro anni di presidenza della Repubblica (dopo l’indulto esteso ai colletti bianchi, il decreto Mastella per bruciare i dossier Telecom, l’ordinamento giudiziario Mastella-Castelli, la salva-Pollari, il lodo Alfano, il raddoppio dell’Iva per Sky, due pacchetti sicurezza con norme razziali anti-immigrati, lo scudo fiscale, il decreto salva-liste).

L’ha fatto così, con nonchalance, senza nemmeno un’obiezioncina, una puntina di malessere, due righe per dire che questa è l’ultima volta. Infatti è sempre la penultima. Ha impiegato quasi un mese a digerirla, ma alla fine è andato tutto bene.

Come spiega La Stampa in un articolo ispirato, aveva tempo fino a sabato, ma ha preferito “anticipare di qualche giorno per tenere l’attenzione ‘concentrata sulle ragioni’ della visita che compirà a Verona” oggi e domani: nientemeno che Vinitaly, la fiera dei vini. Chissà se va a bere per festeggiare o per dimenticare.

Sempre secondo La Stampa, il Colle prevede che anche questa firma verrà deglutita senza nemmeno un ruttino dal Pd e pazienza per “le prevedibili proteste di dipietristi ed estrema sinistra”. Gentaglia.

Avevamo dunque ragione a temere che la mancata firma al ddl sul lavoro fosse un contentino ai critici (piuttosto sparuti) del Quirinale in vista della trionfale promulgazione del cosiddetto legittimo impedimento. Cioè della norma ad personam (la numero 38 dell’Era Berlusconiana) che consente al premier e ai suoi ministri di scampare legalmente ai processi senza il fastidio di doversi inventare di volta in volta una scusa. Il tutto per 18 mesi, in attesa della soluzione finale: il lodo Alfano-bis o il ritorno all’impunità parlamentare.

Ormai, fra il presidente e il premier, s’è instaurato un gioco di squadra ben collaudato: il primo può permettersi qualche scherzetto sulle leggi vergogna che non interessano il secondo, ma su quelle che lo riguardano non si scherza: si firmano e basta.

Ogni dibattito sull’incostituzionalità di questa o quella norma è superato: respingendo il ddl sul lavoro per l’“estrema eterogeneità, complessità e problematicità di alcune disposizioni”, Napolitano ha confermato che l’art. 74 della Costituzione gli consente di rimandare indietro le leggi che non condivide, a prescindere dalla loro incostituzionalità. Da ieri sappiamo che il legittimo impedimento gli è piaciuto un sacco. E pazienza se è manifestamente incostituzionale.

Non lo diciamo noi: l’ha detto la Consulta in due sentenze del 2001 e del 2008. La prima, a proposito degli impedimenti parlamentari accampati da Previti nei processi “toghe sporche”, stabilì che “l’esigenza di celebrare i processi in tempi ragionevoli e quella di assicurare un corretto assolvimento dei compiti istituzionali hanno pari rango costituzionale” e spetta al giudice, non certo all’imputato, assicurare un giusto bilanciamento fra le due istanze. La seconda, bocciando il lodo Alfano, definiva “irragionevole e sproporzionata” la “presunzione legale assoluta di legittimo impedimento” dovuta esclusivamente dalla carica ricoperta: gli impedimenti valgono “solo per lo stretto necessario”, “senza meccanismi automatici e generali”, tantopiù che la deroga al principio d’eguaglianza era imposta con legge ordinaria.

Inoltre, in barba al precetto costituzionale che vuole i giudici “soggetti soltanto alla legge”, il legittimo impedimento li assoggetta alle circolari di un funzionario di Palazzo Chigi che comunicherà insindacabilmente ai tribunali, di sei mesi in sei mesi, l’impossibilità del premier e dei ministri a comparire (il che fa prevedere che presto Bertolaso e Cosentino diverranno ministri).

Lo stesso difensore di Berlusconi, on. avv. Piero Longo, ha ammesso che “il legittimo impedimento finirà certamente davanti alla Corte”. Dunque lo sa anche il presidente di aver firmato una legge incostituzionale.

Dunque siamo autorizzati a chiamarla “legge Berlusconi-Napolitano” e a non sentirci più rappresentati dal presidente della Repubblica dei Partiti.

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