giovedì 8 aprile 2010

Csm, il sorteggio indegno


di Armando Spataro (*)

E dunque il lettore appassionato del Fatto ha appreso lunedì che Bruno Tinti la pensa come il ministro della Giustizia Alfano. Anzi, che è stato il precursore e che rivendica il diritto di primogenitura di uno dei progetti di riforma del Csm. Ci sarà tempo di parlare di altre criticabili proposte come quelle di alterarne la composizione e di creare una sezione disciplinare esterna al Consiglio stesso. Ma ora parliamo del possibile sorteggio dei suoi componenti. Chi sostiene tale tesi parte da un assunto largamente condiviso: le correnti dell’Anm sono il male assoluto e ne va stroncato il potere che si manifesta proprio nel momento del rinnovo quadriennale del Csm.

Le correnti, infatti, designando i loro candidati nelle consultazioni previste dalla legge e dalla Costituzione e ottenendone l’elezione nella proporzione risultante dal voto dei magistrati, finiscono con l’occupare il Consiglio nella misura di due terzi (mentre l’altro terzo è di nomina parlamentare) e di conseguenza con il gestire in base ad accordi spartitori tutte le funzioni e le competenze consiliari. A partire dalla nomina dei dirigenti: uno a noi, uno a voi e la prossima volta pure! Dunque, ha detto Tinti prima di Alfano, bisogna disarticolare il potere delle correnti che tracima anche nell’occupazione dei ruoli di vertice dell’Associazione e nelle carriere parallele dei magistrati fuori ruolo, cioè quelli destinati al ministero della Giustizia e ad altri incarichi. Ma poiché sembra impossibile convincere i magistrati a votare candidati che diano garanzie di irreprensibilità (forse, deve dedursi, perché non ne esiste alcuno), non resta che togliere alla magistratura italiana il diritto di voto. Come? Semplice, procedendo al sorteggio dei futuri componenti del Csm così da ottenere, con l’aiuto della dea bendata, un esercizio delle funzioni consiliari efficiente e super partes.

Qui, però, le strade del ministro e del Tinti divergono a causa di un piccolo ostacolo: l’art. 104, comma 3, della Costituzione prevede che i magistrati eleggano i loro colleghi componenti del Csm. Certo si potrebbe cambiare la Costituzione ma, come si sa, l’iter prevede tempi lunghi.

Ecco allora che si manifestano due diverse scuole di pensiero per conciliare precetto costituzionale e guerra alle correnti.

I consiglieri del ministro Alfano pensano che si potrebbe procedere prima al sorteggio di un certo numero di magistrati (50,100,200?) e poi, entro questo gruppo di fortunati, consentire l’elezione dei 16 togati previsti dalla legge. Ma, osserva Tinti, questa potrebbe essere una scelta incostituzionale perché non pare che il diritto di voto possa soffrire limitazioni. Dunque, meglio sarebbe che le correnti organizzassero il sorteggio dei 16 magistrati e poi impegnassero tutti a votarli. La soluzione proposta da Tinti, insomma, si fonda sullo stesso esercizio del potere correntizio che vorrebbe contrastare e prevede che circa 9000 magistrati (vuoti d’organico permettendo) votino passivamente coloro che viene loro ordinato di votare.

Francamente, non riesco ad immaginare una proposta più lesiva della dignità dei magistrati italiani di quelle legate alla possibilità di sorteggiare – direttamente o indirettamente – i componenti del Csm. Si tratta di una visione “istituzionale” non solo contraria alla Costituzione, ma anche miope nella misura in cui attribuisce all’Associazione magistrati la natura di un “sindacato” (come Tinti dice espressamente), ignorando le ragioni della sua nascita e la sua storia nobile che la portò ad autosciogliersi durante il fascismo. Ed è una visione inadeguata al livello costituzionale del Csm che si vorrebbe deputato a compiti burocratici e di ordinaria amministrazione (trasferimenti e nomine innanzitutto), esattamente come volevano i padri della Bicamerale di infausta memoria.

Rita Sanlorenzo, segretaria di Magistratura democratica, ha invece già ricordato che “il modello realizzato dai Padri costituenti ha consapevolmente fondato il sistema di autogoverno su una forte rappresentatività del corpo della magistratura, un modello che ha fino ad oggi tenuto, nonostante i numerosi interventi sul sistema elettorale (5 riforme in 50 anni). Modificarlo, magari per abbracciare ipotesi di evidente stampo reazionario come quella del sorteggio dei componenti del Csm, porterebbe ad annullare questa rappresentatività e dunque ad abolire il sistema di governo autonomo [...]. Il fatto che proprio su questo carattere si voglia intervenire, agendo periodicamente sui sistemi elettorali, è il segno di quanto l’obiettivo reale sia la capacità del Consiglio di essere davvero rappresentativo e per questo autorevole nella difesa della magistratura verso l’esterno”.

Non è difficile spiegare in cosa consiste la “rappresentanza” della magistratura che è alla base del sistema di autogoverno se solo si accetta l’idea, certo non blasfema, che i magistrati abbiano il diritto di interloquire sul funzionamento della giustizia, sulla sua organizzazione, sulla difesa della propria indipendenza: è meglio nominare un dirigente più anziano o uno più dinamico e capace (vecchio tema di discussione)? È meglio privilegiare la specializzazione o la pluralità delle esperienze professionali? È giusto organizzare corsi di aggiornamento professionale aperti alle esperienze esterne alla magistratura? O è meglio evitarlo? In che senso interpretare la possibilità di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale ecc.? E, passando alle valutazioni dei disegni di legge, si deve accettare la pretesa – pure negata dagli interventi degli ultimi due capi dello Stato – che il Csm resti silente sui progetti di riforma della giustizia se non interpellato dal governo?

Questi e altri possibili interrogativi si materializzano all’atto del rinnovo del Csm perché è logico che, al momento di eleggerne i componenti, il magistrato elettore che intenda esprimere un voto consapevole voglia conoscere le opinioni e i programmi dei candidati. Ed è altrettanto logico che costoro, per presentarsi agli elettori, si aggreghino per omogeneità di vedute e che vogliano rendersi riconoscibili con un programma, una sigla.

Sono le regole fondamentali della democrazia. E la democrazia non riguarda solo il Parlamento, riguarda anche l’elezione dei comitati di quartiere. Ecco perché all’interno dell’Associazione magistrati si sono formate le tanto vituperate correnti: luoghi di aggregazioni ideali, delle quali va contrastata non la ragion d’essere, ma solo la deriva corporativa. Voglio essere anche chiaro, però, su uno dei punti centrali che muovono i recenti “raffinati” progetti di riforma del Csm: è un fatto certo, cioè, che sulle scelte consiliari pesano, spesso in modo significativo, fattori impropri, come le appartenenze correntizie, così come le amicizie, i localismi geografici (condizionamenti che riguardano anche i componenti laici, e spesso in misura maggiore dei togati). Ma perché, allora, non sforzarsi di contrastare queste patologie, chiedendo trasparenza nelle motivazioni di ogni scelta consiliare e stimolando, all’atto del voto, il ricordo di quelle ingiustificabili? E’ forse troppo difficile discutere, o esercitare la memoria, o provare a responsabilizzare i magistrati elettori? In fondo è quanto chiediamo anche agli italiani all’atto del voto per il rinnovo del Parlamento. Non comprendo, allora, perché il Csm debba essere ridotto al rango di una bocciofila di quartiere e i magistrati al livello di persone che non sanno giudicare, orientarsi, scegliere, partecipare alla vita democratica, costrette invece ad accettare che le alte funzioni consiliari siano esercitare da colleghi selezionati in base al caso. La risposta possibile è una sola: i magistrati sono persone da punire, anche privandole del diritto di voto.

(*) Procuratore aggiunto a Milano, segretario del Movimento per la Giustizia/Articolo 3 a Milano

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