sabato 24 aprile 2010

Intervista a Luigi Morsello, ex direttore di carceri

dal blog LE URLA DAL SILENZIO
http://urladalsilenzio.wordpress.com/

Questo è uno di quei momenti che resteranno nella storia del Blog. Il nostro è stato fin dall’inizio uno spazio che ha voluto entrare nel cuore delle cose, impadronirsi di differenti linguaggi, solcare l’orizzonte. E ricordo alcuni momenti “decisivi”. L’inserimento del video dello spettacolo teatrale realizzato dagli ergastolani di Spoleto, prima di ogni altro evento. La prima opera di Paolo Scarfone. L’inizio del dialogo tra Carmelo Musumeci e il professore di filosofia Giuseppe Ferraro. La lettera di Alfredo Sole dove raccontava come grazie al Blog e agli amici che attraverso di esso l’hanno raggiunto, aveva finalmente cominciato a demolire la menzogna che per anni gli era stata costruita dentro. Ossia che era solo e sempre il mondo sarebbe stato oggetto di disprezzo, in quanto marchiato a vita. E quindi il suo posto sarebbe dovuto essere per sempre dentro. Fu un bel momento leggere quella lettera. Sono tante le candele che segnano un percorso.

E oggi c’è un’altra candela. Un momento certamente non facile, ma importante. L’intervista a Luigi Morsello, ex direttore di carceri, attualmente in pensione. Luigi Morsello, ispettore generale dell’amministrazione penitenziaria, dal 1969 al 2005 è stato direttore di sette case di reclusione, un istituto minorile ed è stato “in missione” – come funzionario dirigente – in altre ventidue carceri italiane. La “stagione” di Luigi Morsello, 1969-2005, comprende in sé alcuni degli anni più bui della storia d’Italia. Gli anni del terrorismo, delle carceri fatiscenti e inadeguate, delle evasioni e dell’ascesa della Mafia. Gli anni di Carlo Alberto dalla Chiesa e delle rivolte nelle carceri. Anni di tensione, polemiche violente, pericoli costanti, forti inimicizie e odi, e altrettanto forti passioni e lealtà. Anni duri, anni ideologici, anni di “trincea”. E in fin dei conti la vita di Luigi Morsello è stata una vita “in trincea”. Checché ne si pensi di lui, nel bene o nel male, andrà sempre rispettato in quanto è stato un “combattente”. Uno di quelli che ora si direbbe.. “ci ha messo la faccia”. A volte avrà anche sbagliato. Ma anche quando lo ha fatto, lo ha fatto “di persona”. Con quella rara qualità, difficilissima da riscontrare in giro che è quella di darci dentro, ogni volta, di non adagiarsi, in comodi andazzi e pigri tran tran. Con la capacità di prendersi sempre le proprie responsabilità, senza nascondersi dietro ai fichi o giocare anche lui allo sport nazionale dello “scarica barile”. Luigi Morsello non è di quegli uomini che hanno la pretesa di essere perfetti. Ma di coloro che non fanno “da tappezzeria”. E alla fine hanno una STORIA da raccontare, loro “ci sono stati”, nel bene e nel male. Non hanno vegetato, non si sono risparmiati.

Luigi Morsello è stato un direttore di carcere che oggi qualcuno potrebbe definire “progressista”. Per un motivo molto semplice.. ossia perché considerava i detenuti con cui aveva a che fare come ESSERI UMANI. Attenzione, non sto dando una immagine beatificante. Può benissimo essere che nel concreto con molti possa avere agito in un modo contestabile. Non ero là a seguire dal vivo la sua vicenda. Qui si dice semplicemente che non considerava i detenuti carne da macello, che li riconosceva come persone. Che, qualunque siano stati i risultati, almeno ci ha provato. Che è la prima cosa che può essere chiesta ad un essere umano.. PROVARCI.

Non essendo tipo da quieto vivere e da due piedi in una scarpa, la sua vicenda è stata anche una vicenda di “scontri”; ad esempio, con burocrazie e amministrazioni non sempre trasparenti. O quando ha sempre voluto mettere il naso nei giri di denaro che sorgevano intorno alle carceri, quando chiudendo un occhi.. avrebbe evitato tante grane.. e, ricevuto, qualche “integrazione allo stipendio”.

La sua storia adesso è contenuta in un libro, LA MIA VITA DENTRO, di cui Luigi Morsello mi ha gentilmente inviato una copia, che sto leggendo. Per chi volesse saperne di più, è un’opera pubblicata dai tipi della INFINITO EDIZIONI. La cosa che più mi sta colpendo del suo libro è l’estrema sincerità, quasi spietatezza che Luigi Morsello ha verso se stesso. Non edulcora nulla, e mostra senza ritrarsi momenti imbarazzanti, cose che col senno di poi non avrebbe fatto, cadute e debolezze. Anche questo è inusuale in un paese che sulle “biografie beatificanti” ha creato un vero e proprio genere letterario.

Andiamo all’intervista…

Ci tengo a dire che seppure qui sopra trovate solo il mio nome, questa intervista è frutto di un lavoro collettivo. Prima di farla mi sono coordinato con Maria Luce e Nadia. Ho raccolto le domande che Maria Luce voleva fare, quelle di Nadia, e, aggiuntele a qualcuna mia, le ho armonizzate in una intervista che voleva essere coerente, efficace e non dispersiva.

Proprio per onorare l’occasione; e per rispetto verso Luigi Morsello e tutti i lettori, l’intervista non ha concesso nulla al politicamente corretto e ad esigenze di opportunità. Dimenticatevi Bruno Vespa. Abbiamo semplicemente fatto le domande che sentivamo di dovere fare. Nessun intento di ruffianeria, come neanche aprioristiche diffidenze. Alcune domande sono tra quelle che un direttore di carcere ha sempre odiato ricevere. Ma tutte, anche quelle, sono sempre state fatte a viso aperto e in un contesto di stima reciproca. Ne nasce un dialogo non facile, ma costruttivo e importante. Luigi Morsello non si è mai tirato indietro nel rispondere. Dico subito, in questa operazione-trasparenza con cui l’intervista è stata condotta e presentata a voi, che alcune risposte di Luigi Morsello non mi convincono o comunque preparano altri interrogativi e domande che, se sarà d’accordo, gli faremo in un secondo momento, per una sorta di “prosieguo” di questa intervista.

Sono 53 domande.. anzi 54, come vedrete alla fine. E ringraziamo Luigi Morsello anche per la pazienza. Prima che iniziate la lettura dell’intervista voglio citare già adesso quello che seondo me è stato il momento più bello e intenso di questo scambio. Un momento di quelli che effettivamente valgono una esistenza, e che Morsello inserisce tra i più belli della sua vita.. molto “carico”, molto cinematografico.. quando alla domanda su quale è stato il momento più bello dei suoi quarantanni da direttore, risponde:

Fu quando accompagnai fino in centro (eravamo a San Gimignano) un anziano detenuto che aveva ottenuto la liberazione condizionale, in previsione della quale io gli regalai una cravatta (non ne aveva) e gli feci il nodo (non lo sapeva fare) a casa mia (c’era stato per la esecuzione di lavori in economia, si trattava come è ovvio di un alloggio demaniale di servizio), dov’era considerato un amico anche dai miei figli bambini. Il momento del nodo alla cravatta fu commovente.”

Buona lettura…

1) Cosa significa esattamente essere direttore di un carcere.. quali le mansioni e quali sono le responsabilità nei confronti dei detenuti

R. cominciamo col richiamare la funzione che l’art. 27, comma 3 della Costituzione assegna alla pena detentiva:” Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Questo significa che la pena detentiva non più è solo afflittiva, in quanto la sua esecuzione deve promuovere un processo di rieducazione. Ci son voluti circa 27 anni prima che il precetto costituzionale trovasse attuazione nella legge di riforma dell’ordinamento penitenziario (legge n.354/1975), il cui art. 1 (Trattamento e rieducazione) contiene i principi fondamentali, che sono: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona.

Il trattamento è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazioni in ordine a nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e a credenze religiose.

Negli istituti devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti degli imputati, non indispensabili a fini giudiziari.

I detenuti e gli internati sono chiamati o indicati con il loro nome.

Il trattamento degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva.

Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”. L’attuazione di questi precetti, che trovano poi ampia esplicazione nel testo della legge e del successivo regolamento di esecuzione, è il compito di un direttore di carcere. La sua attività dispiega efficacia sia sulle persone detenute che sul personale che è posto a sua disposizione per far funzionare il carcere. La vita di tutto questo apparato e delle persone che ne fanno parte ruota intorno alla capacità del direttore di attendere alle necessità di tutti, detenuti e personale civile e di polizia penitenziaria: un compito immane.

2) Perché ha scelto questa professione? Come è arrivato ad essere direttore e perché?

R. Mio padre è stato un agente di custodia, dei minorenni, in casa si parlava dell’ambiente di lavoro. L’ultima sede di servizio di mio padre fu Eboli, dove c’era un Istituto di Rieducazione per Minorenni, fino al 1978, quando tale compito fu assegnato alle regioni e sparì, non venne più fatta nessuna prevenzione. Anche se oggi dubito che tale prevenzione fosse veramente efficace, tuttavia ero colpito da quell’ambiente di lavoro, ragazzino anch’io, dove talvolta mio padre mi portava con sé (intanto era passato all’impiego civile). Una volta la settimana i ragazzi venivano portati al cinema, all’esterno dell’istituto, e mio padre mi ‘imbucava’ assieme a loro. Aspettavamo in piazza e vedevo questa, lunga teoria di divise e mantelle scure con cappelli a visiera, ch erano l’abbigliamento tipico dei ragazzi. Dopo la laurea il primo concorso disponibile fu, per mala sorte, quello, lo feci e lo vinsi. La mia prima sede di servizio furono gli istituti penitenziari fiorentini, anno 1967.

3) La sua professione e la sua famiglia, quali le reazioni dei familiari al suo tipo di lavoro non facile, duro. E ha dovuto pagare prezzi alti in termini di rapporti con i famigliari, ad esempio per quando riguarda il contatto con sua moglie e i suoi figli?

R. Non è stata una vita facile, mi accorsi subito che del carcere in realtà non sapevo niente e che avrei dovuto imparare tutto da tutti, detenuti compresi. La mia famiglia di origine fu ben felice che io avessi superato il concorso. Certo, l’applicazione era costante, richiedeva non si badasse ad orari lavorativi rigidi, anzi, il direttore e il comandante di reparto (maresciallo comandante nel precedente ordinamento) hanno il diritto-dovere di un alloggio di servizio gratuito (solo per il canone locativo), all’interno del carcere, basta fare pochi metri e dall’ufficio si arriva a casa, collegata con telefono interno (il fisso è a carico del locatario), quindi il contatto con la famiglia è continuo, inoltre la non rigidità dell’orario di lavoro consente di curare anche i rapporti familiari. Personalmente, la mia giornata lavorativa feriale era di non meno di dodici ore lavorative.

4) I detenuti cosa pensavano di lei, come la definivano, che impressione avevano?

R. Prevalentemente, in larga maggioranza, sapevano di potersi fidare di me, ero uno serio, che manteneva le promesse e sanzionava le mancanze disciplinari. Mi definivano uno serio, sì, senza nomignoli.

5) Ha lavorato in carceri diverse o sempre nello stesso?

R. Sono stato direttore titolare in sette istituti penitenziari e in missione contemporanea in altri ventidue (circa) in Toscana, Piemonte, Lombardia e Campania.

6) Ma dormiva e viveva dentro il carcere anche lei, quali erano i contatti con i detenuti?

R. Ho già detto dell’alloggio di servizio. I contatti con i detenuti erano quotidiani, vuoi per colloqui vuoi all’interno delle sezioni o dei cortili di passeggio o delle lavorazioni (dove c’erano).

7) Si è mai fermato a pranzo con i detenuti? Ha mai visitato le loro celle? Se no, perché?

R. Con tutti i detenuti una sola volta, negli anni ’70, a San Gimignano, organizzammo un pranzo con anche le famiglie dei detenuti: una roba formidabile. Poi il terrorismo ha scombinato tutto. Spesso, all’ora di pranzo, passavo per qualche sezione e mi invitavano ma io mi limitavo ad assaggiare qualcosa. Fino a tutti gli anni ’80 facevo il c.d. “assaggio” del vitto dei detenuti e degli agenti. Naturalmente non mi sono più ripreso dal sovrappeso.

Quando un detenuto, in particolar modo un ergastolano arrivava nel suo carcere, quale era il suo giudizio personale verso di lui? Cioè, era influenzato dai reati o, nel tempo, il suo punto di vista era aperto verso il detenuto?

R. La presa di coscienza dei reati commessi è il primo passo che occorre compiere per l’approccio con la necessità di una osservazione della personalità e la ricerca di strumenti riabilitativi da proporre all’interessato. Infatti, l’ipotesi di trattamento è una offerta che viene fatta al detenuto che partecipa all’attività di osservazione. La risposta è che sì, inizialmente mi era difficile estraniarmi dai contenuti delle sentenze, successivamente ho finito con il considerare il vissuto criminale del soggetto in osservazione con il necessario distacco.

9) Le è mai successo di pensare di un detenuto, prima di ogni altra considerazione.. “quello è un calabrese, quello è un siciliano, quello è un napoletano”.. come se gli appartenenti a certi contesti geografici avessero sulla pelle un marchio criminale o una predisposizione a delinquere?

R. Sì, limitatamente ad una regione che non è fra quelle elencate e che non rivelo adesso.

10) Il carcere in Italia recupera le persona? Se si, in che percentuale e dove e in quali condizioni questo è avvenuto. Mi faccia qualche esempio concreto.

R. In generale no o molto poco. Potendo parlare solo per la mia esperienza, in passato molti casi, alcuni descritti nel mio libro LA MIA VITA DENTRO, di recente una persona accusata di pedofilia e condannata, sul filo del suicidio, tenuta assieme da due valenti psicologi, della quale mi occupai facendola ammettere al lavoro esterno quale cuoco (era il suo lavoro), la lettura della sentenza di primo grado, di assoluzione, ribaltata in secondo grado, mi convinse che l’accusa era ingiusta e basata solo su una testimonianza non molto attendibile; un secondo caso, di una persona che era stata condannata, giustamente, per lo stupro di sei prostitute, non pagate, altro grande lavoro dei due psicologi, che io feci ammettere al lavoro esterno dopo un colloquio durante il quale lo misi davanti a uno specchio e gli chiesi se quell’uomo che lui vedeva riflesso nello specchio, di bell’aspetto, giovane, due baffi curati, aveva bisogno di stuprare per avere una donna mentre aveva tutti i requisiti per conquistarla. Scarcerato sim è sposato, ha un figlio, lavoro e conduce una vita normale.

11) Perché in carcere i diritti base, dall’igiene al vitto decente, alla possibilità di più contatti familiari sono così difficili ancora oggi, nell’anno 2010?

R. Non è vero. L’igiene personale non ci riguarda, l’igiene dei luoghi di vita è garantita da lavoranti detenuti addetti alle pulizie, i colloqui concedibili sono quelli previsti dal Regolamento di Esecuzione dell’ordinamento penitenziario che da ora in poi chiameremo R.E. (art. 37, comma 8: sei colloqui al mese della durata di un’ora, quattro per alcune categorie di detenuti ad alta sicurezza), i colloqui sono l’unico strumento disponibile per i contatti visivi con i familiari, ma c’è al corrispondenza epistolare e telegrafica, può essere concessa la ricezione di fax (art. 38) e le telefonate una volta alla settimana (art. 39).

12) Perché si tolgono le forniture igieniche e non si abbassano gli stipendi del ministro, dei dirigenti dap, dei direttori e degli agenti e degli altri operatori carcerari?

R. La domanda è ingenua e dimostra la non conoscenza delle norme di contabilità generale dello Stato, l’espressione forniture igieniche è generica, i disservizi sono dovuti a cattiva organizzazione del settore amministrativo-contabile e all’insipienza del direttore (e sono anche buono con i miei ex colleghi).

13) Perché i tempi delle osservazioni trattamentali sono infiniti e le persone vedono passare il tempo in cui potrebbero avere benefici inutilmente per l’inerzia di altri?

R. L’osservazione trattamentale può essere fatta solo per i detenuti in esecuzione di pena irrogata con sentenza di condanna irrevocabile. Per ogni detenuto che fa ingresso in carcere con condanna irrevocabile è prevista l’osservazione della personalità, che deve portare alla formulazione di un “programma individualizzato di trattamento” nel termine di nove mesi; ciò prevede che lo Stato metta a disposizione dell’amministrazione penitenziaria le risorse necessarie: soldi, personale, educatori, psicologi, criminologi, assistenti sociali. Ciò non accade, specie negli ultimi anni a partire dal 2001. Le persone disponibili fanno del loro meglio, non basta ma non è colpa loro. Non c’è inerzia.

14) Quando un magistrato di sorveglianza non va ad incontrare i detenuti chi lo controlla? Che sanzioni ha?

R. Per quanto a mia conoscenza, non accade, anche per loro vale il discorso di cui sopra, mancano risorse economiche e di personale. In ogni caso l’organo disciplinare per i magistrati è il Consiglio Superiore della Magistratura (C.S.M.).

15) Che rapporti ci sono fra il direttore del carcere e il magistrato di sorveglianza?

R. Sono due organi dello Stato, fra i quale non corre un rapporto di gerarchia. Il magistrato di sorveglianza esercita nei confronti del direttore e del carcere il controllo sulla esecuzione delle pene e delle carcerazioni preventive, un controllo di mera legittimità, cioè che vengano rispettate le norme di legge in materia di esecuzione penale.

16) E con il presidente del tribunale?

R. Nessun rapporto diretto.

17) Lei ha mai “richiamato” un Magistrato di Sorveglianza per il suo comportamento o negligenza?

R. Non è compito del direttore del carcere ma del Presidente del Tribunale si Sorveglianza organizzare l’attività degli uffici e dei magistrati sorveglianza compresi nell’ambito della giurisdizione del tribunale medesimo, ma qui il discorso è molto delicato e non può svolgere in questa sede.

18) In carcere chi conta di più: il direttore o il comandante della sorveglianza?

R. Il direttore è il superiore gerarchico del comandante di reparto di polizia penitenziaria. Per diplomazia, meglio non approfondire l’argomento riguardo a chi, nei fatti, conti di più.

19) E nel suo caso i rapporti con i comandanti come erano? Chi contava di più? E poi c’era collaborazione o anche casi di lotte di potere tra lei e loro?

R. Con i comandanti di reparto intelligenti ottimi, con gli altri il superiore gerarchico ero io, non ammettevo interferenze.

20) Perché i detenuti non possono avere momenti in cui vivere l’affettività? Lei che ne pensa?

R. L’afflittività della pena detentiva comporta una limitazione della libertà personale, non una compressione della sfera sessuale, almeno dopo l’entrata in vigore della costituzione repubblicana. La condanna a pena detentiva significa che quel tempo deve essere trascorso all’interno del carcere nel rispetto delle regole di vita prevista dall’ordinamento. Sia il Regolamento carcerario del 1931 che la legge penitenziaria di riforma del 1975 non hanno affrontato e risolto il problema della pratica di rapporti sessuali nell’ambito di un rapporto di matrimonio o di convivenza. Questo significa che alla pena detentiva viene aggiunta una pena accessoria non prevista dal codice penale solo perché la legge non disciplina le modalità da osservare per consentire di coltivare l’affettività familiare, ivi compreso il rapporto sessuale. Certo è che il personale di polizia penitenziaria vede come il fumo negli occhi questo problema, e con esso i sindacati di categoria. Io sono favorevole ma non vedo nessuno sbocco nel prossimo futuro, ci vorrebbe una società ed uno Stato organizzati, obbiettivo dal quale siamo molto lontani.

21) Perché le persone si suicidano in carcere?

R. Per lo stesso motivo, in genere, per cui lo fanno in libertà, con in più l’impatto crudele con l’ambiente del carcere per chi vi fa ingresso per la prima volta. Le persone di carattere forte non lo fanno.

22) Che ne pensa dei bambini in carcere con le loro mamme?

R. Problema drammatico, i bambini non dovrebbero stare in carcere con le loro madri, che però in carcere si trovano perché hanno commesso o sono accusate di aver commesso reati. Dovrebbero stare in una struttura esterna al carcere, con le caratteristiche di sicurezza necessarie ma con ambienti studiati per limitare il danno psicologico ai bambini. Io sono a conoscenza di una sola struttura del genere.

23) Qual è stato il rapporto più difficile che ha avuto con un detenuto in particolare, e perché?

R. Non ricordo rapporti particolarmente difficili, sono sempre riuscito a ragionare e far ragionare.

24) Ha mai messo qualcuno in isolamento?

R. Sì, è fra i poteri che incombono sul direttore (art. 78, comma 1 R.E.), il quale ha l’obbligo far rispettare l’ordine e la disciplina all’interno del carcere (art. 1, comma 3, R.E.).

25) Dal suo carcere è mai uscito un detenuto in liberazione condizionale?

R. Sì, certo.

26) Lei è mai stato messo al corrente di possibili soprusi della polizia penitenziaria verso detenuti, negli anni del suo lavoro di direttore? Se si, come ha reagito, cosa ha fatto?

R. Non ho mai ricevuto rapporti giudiziari contro il personale, li avrei trasmessi alla Procura della Repubblica; in diversi casi sono intervenuto ufficiosamente per ammonire, del tipo “parli alla figlia perché suocera intenda”.

27) Quando e come ha conosciuto l’ergastolo ostativo ai benefici (quello ostativo di ogni beneficio, quello dove il fine pena mai è reale)? Lo trova giusto? Se no, cosa propone in alternativa?

R. Non conosco il significato, se ne ha uno, di questa espressione (ergastolo ostativo), in giurisprudenza esiste una sola sentenza che usa l’aggettivo ‘ostativo’, la seguente:

“Codice Penale art. 176

In tema di liberazione condizionale, il requisito del ravvedimento va verificato non postulando la necessità di una modifica ideologica e psicologica della personalità del condannato, ma soltanto quella di una seria ed affidabile prognosi di pragmatica conformità della sua futura condotta al quadro normativo con il quale egli si è posto in conflitto, per cui non può attribuirsi valore di per sè ostativo alla mancanza di abiure verbali o riconoscimenti di colpe ed errori (principio affermato, nella specie, con riguardo a soggetto condannato all’ergastolo per vari omicidi commessi nell’ambito dell’appartenenza alla banda armata denominata “brigate rosse”). Cassazione penale , sez. I, 10 dicembre 2004, n. 196 M. Riv. pen. 2005, 691”. Come si legge, il significato è di segno positivo.

Il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno 26 anni di pena (art. 176, comma 3, cod. pen.).

La competenza a concederla è il Tribunale di Sorveglianza (art. 70. comma 1 legge 354/1975). La concessione avviene tenuto conto di una serie di elementi di giudizio, quali i pareri degli organi carcerari, gli atti processuali, la sentenza di condanna e i rapporti di polizia. Insomma, si torna all’attività di osservazione e al programma di trattamento. Per gli altri detenuti devono essere soddisfatti i periodi minimi di pena detentiva scontata, è prevista anche come proposta di ricompensa unitamente alla grazia presidenziale (art. 76, comma 1. R.E.).

28) Se fosse il Ministro della Giustizia come riformerebbe il carcere?

R. Inizierei a riformare il codice di procedura penale e il codice penale e molte leggi penali inutili e inutilmente gravose del compito della magistratura penale. Ciò comporterebbe un alleggerimento notevole del sovraffollamento delle carceri, le quali potrebbero finalmente svolgere una funzione non solo coercitiva ma anche e soprattutto trattamentale; farei costruire case circondariali con non più 300 posti in camere a tre posti di 24 mq. e case di reclusione di 200 posti con le stesse caratteristiche; mi preoccuperei di organizzare il lavoro intramurale del tipo qualificato e quindi risocializzante; darei spinta propulsiva alle misure alternative alla detenzione, farei adottare misure normative per l’affettività in carcere, ma soprattutto mi preoccuperei di avere i fondi necessari per tutto quanto sopra, sapendo che sono soldi investiti per una resa di natura sociale, sperando in un saldo attivo e operando a tal fine. Adesso apro gli occhi e smetto di sognare.

29) Chi controlla realmente gli operatori del carcere e il loro operato a tutela dei detenuti?

R. La magistratura di sorveglianza e la gerarchia dell’amministrazione penitenziaria: direttore, provveditore regionale, direttori generali e capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (D.A.P.).

30) E lei che tipo concreto di rapporto ha instaurato con i suoi subalterni e collaboratori? E’ più difficile socializzare quando si lavora in carcere? C’è un clima da “fronte assediato”?

R. Iniziamo dal “clima da fronte assediato” che abbiamo respirato nel decennio 1972-1982, gli ‘anni di piombo’: è l’unico periodo in cui ci sentivamo tutti sotto assedio, poi il terrorismo è stato sconfitto, io non l’ho sentito più. Aggiungo che il rapporto con il personale dipendente era cordiale, in vari gradi di confidenza a seconda se si trattava di personale di diretta collaborazione del direttore o meno, con la sola eccezione dei lavativi, dei disonesti e affini. Quanto al socializzare, dobbiamo intenderci, se ci si riferisce ai rapporti fra personale e detenuti è complicato, perché l’ordinamento richiede un certo distacco e in ogni caso dipende dal carattere, se ci si riferisce al direttore è fondamentale che egli intrattenga rapporti quasi paritari con i detenuti. Ricordate? Egli è il capo del carcere, è una figura perno su cui ruota tutto il funzionamento, è il responsabile delle attività di osservazione è trattamento. Infine, la stima e il rispetto devono essere guadagnati sul campo. È per questo che le cose vanno tanto male oggi nelle carceri italiane.

31) Il momento più duro dei suoi 40 anni di direttore..

R. Mi sembra più corretto parlare di ‘periodo’ più duro ed è quello delle rivolte degli anni ’70. Pensandoci meglio vi sono stati, sul versante del lavoro, tre momenti duri, le tre volte in quarant’anni che un detenuto si è tolto la vita, ogni volta era un fallimento mio personale e del carcere che dirigevo.

32) Il momento più commovente, più emozionante..

R. Fu quando accompagnai fino in centro (eravamo a San Gimignano) un anziano detenuto che aveva ottenuto la liberazione condizionale, in previsione della quale io gli regalai una cravatta (non ne aveva) e gli feci il nodo (non lo sapeva fare) a casa mia (c’era stato per la esecuzione di lavori in economia, si trattava come è ovvio di un alloggio demaniale di servizio), dov’era considerato un amico anche dai miei figli bambini. Il momento del nodo alla cravatta fu commovente.

33) Che ricordo ha dei suoi detenuti? Ne ricorda qualcuno in particolare, forse qualche ergastolano?

R. Dappertutto ho riscontrato molta umanità, da direttore titolare non ho conosciuto ergastolani. A San Gimignano (casa penale) ci sono molti detenuti che io ricordo, le figure più tragiche le ho conosciute a Lonate Pozzolo, provincia di Varese, un carcere-non carcere soppresso nel 1989, senza muro di cinta né recinzioni di filo spinato né sbarre alle finestre, ma persiane di legno chiuse dall’esterno con un lucchetto e solo per la notte, un tenimento agricolo di circa 350 ettari, era ridosso della Malpensa che l’ha fagocitato. Vi venivano destinati detenuti quasi al fine pena (18 mesi residui), negli ultimi anni detenuti sieropositivi all’HIV destinati a morire rapidamente, arrivavano, dall’aspetto malato, la vita all’aria aperta dava l’illusione di una ripresa, poi peggioravano improvvisamente e morivano, in ospedale dove si rendeva necessario ricoverarli. Era il periodo in cui si scoprivano anche altri tipi di epatite, come la C, ma era l’AIDS quello che faceva più paura.

34) Quali sono gli interventi che possono davvero e realisticamente migliorare le condizioni di vita dei carcerati, e soprattutto come attuarli?

R. Questa è una domanda cui dovrebbe rispondere più il capo del D.A.P. che un direttore in pensione. Io penso che occorre rimettere l’esecuzione penale al centro dell’attenzione del Governo ma sono ormai almeno 16 anni che non è più una priorità. E non solo perché non vi sono fondi, le casse dell’Erario sono vuote.

35) Cosa pensa di chi uccide, qual è il suo sentire rispetto alla morte violenta. I suoi pensieri in merito, secondo lei, hanno creato pregiudizio verso la persona che ha ucciso?

R. La violenza mi fa orrore in tutte le sue manifestazioni, sia fisiche che morali. No, niente pregiudizi, ho superato anche quelli verso gli aggressori sessuali e i pedofili (quest’ultimi non definitivamente).

36) Il carcere è realmente utile a correggere una socialità pericolosa degli uomini?

R. Io non coltivo utopie ma non sono un sociologo. Certo, la pena detentiva ha una funzione retributiva, una risocializzante, ma non bisogna dimenticare la sua funzione di prevenzione (la minaccia del castigo, sempreché scoperto il reato venga poi irrogato rapidamente). Una società povera è meno pericolosa di una con gravi sperequazioni nella distribuzione delle ricchezze prodotte. Il sistema processuale penale italiano poi sembra fatto apposta per mandare in galera i poveracci e garantire l’impunità ai potenti, almeno dal 1994 in poi.

37) In Europa l’Italia è il paese con il maggior numero di agenti penitenziari, perché non svolgono azione rieducativa ma sono solo dei controllori?

R. Non sono in possesso di statistiche, so per certo due cose: 1) la legislazione delle carceri è la più avanzata al mondo; 2) vi sono diverse carceri e diversi reparti che restano chiusi nonostante il sovraffollamento per mancanza di personale.

38) Esistono sempre episodi di violenza a carattere sessuale tra detenuti o di violenza in genere, le è mai successo di venirne a conoscenza e come si è regolato?

R. Lo stupro in carcere è sempre possibile, ma è molto più realistico che vi siano rapporti omosessuali volontari. Io non ho mai ricevuto denunce di stupri in carcere, né dai detenuti né dal personale, che peraltro prova avversione per la omosessualità.

39) Che fa o che dovrebbe fare un direttore quando viene a conoscere i soprusi che gli operatori del carcere fanno subire ai detenuti.

R. io intervenivo in via disciplinare o, se vi erano ipotesi di reato, denunciando i fatti all’Autorità Giudiziaria.

40) Quali ingiustizie ha visto da parte degli operatori del carcere nei confronti dei detenuti?

R. Ingiustizie mai, comportamenti scorretti molti, qualche volta ipotesi di reato.

41) Quando lei è venuto a conoscenza di pestaggi, da poliziotti o secondini contro detenuti all’interno del carcere, e anche qui, come si è regolato?

R. Poliziotti è una parola generica, quindi si tratta di poliziotti penitenziari. Secondini è un termine dispregiativo. Ciò premesso, le rare volte in cui poteva accadere era durante l’isolamento e in tempi lontani, durante l’isolamento per motivi precauzionali, andavo all’isolamento da solo ma non una sola volta mi è stata fatta una denuncia, verbale o scritta, dai detenuti sicuramente pestati ma con pochissimi segni visibili, i quali dichiaravano di essere ‘caduti dalle scale’. Approfondendo capii che in quei casi c’era stata resistenza attiva, però l’usanza dell’epoca era che non si facevano denunce reciproche, per cui a me non arrivava mai nulla.

42) Indagini e inchieste stanno dando da anni un quadro sempre più da incubo di ciò che è stato il supercarcere di Pianosa. Lei che per qualche tempo fu dislocato in quel carcere cosa può dire su di esso? E venne a conoscenza di tali atti di brutalità? Se sì, fece qualcosa per impedirli?

R. Ci sono stato un solo mese, dal 15.11. al 15.12.1980, durante il quale ho avuto un gran daffare per ben altri motivi, lo si legge nel mio libro LA MIA VITA DENTRO.

43) Concorda con chi vorrebbe riaprire “le carceri speciali”, come l’Asinara e Pianosa?

R. No. Il motivo è che la nostra burocrazia non è capace di gestire situazioni complesse come la vita in isola con un tessuto organizzativo puntuale, perfettamente funzionante, con tutti i mezzi economici e di personale necessari, il che finisce col far sentire i custodi più isolati dei reclusi. Inoltre, la politica delle carceri isolane è storicamente superata.

43) Cosa pensa del 41 bis?

R. E’ questo il 41 bis: “Situazioni di emergenza.

1. In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza,il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto.

2. Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente. In caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’articolo 4-bis.

2-bis. Il provvedimento emesso ai sensi del comma 2 è adottato con decreto motivato del Ministro della giustizia, anche su richiesta del Ministro dell’interno, sentito l’ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero quello presso il giudice procedente e acquisita ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia, gli organi di polizia centrali e quelli specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva, nell’ambito delle rispettive competenze. Il provvedimento medesimo ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. La proroga è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto. Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sè, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa.

[2-ter. Se anche prima della scadenza risultano venute meno le condizioni che hanno determinato l'adozione o la proroga del provvedimento di cui al comma 2, il Ministro della giustizia procede, anche d'ufficio, alla revoca con decreto motivato. Il provvedimento che non accoglie l'istanza presentata dal detenuto, dall'internato o dal difensore è reclamabile ai sensi dei commi 2-quinquies e 2-sexies. In caso di mancata adozione del provvedimento a seguito di istanza del detenuto, dell'internato o del difensore, la stessa si intende non accolta decorsi trenta giorni dalla sua presentazione.] (abrogato)

2-quater. I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria. La sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 prevede:

a) l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate;

b) la determinazione dei colloqui nel numero di uno al mese da svolgersi ad intervalli di tempo regolari ed in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti. Sono vietati i colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi, salvo casi eccezionali determinati volta per volta dal direttore dell’istituto ovvero, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria competente ai sensi di quanto stabilito nel secondo comma dell’articolo 11. I colloqui vengono sottoposti a controllo auditivo ed a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente ai sensi del medesimo secondo comma dell’articolo 11; solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto ovvero, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria competente ai sensi di quanto stabilito nel secondo comma dell’articolo 11, e solo dopo i primi sei mesi di applicazione, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti sottoposto, comunque, a registrazione. I colloqui sono comunque videoregistrati. Le disposizioni della presente lettera non si applicano ai colloqui con i difensori con i quali potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari;

c) la limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno;

d) l’esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati;

e) la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia;

f) la limitazione della permanenza all’aperto, che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone, ad una durata non superiore a due ore al giorno fermo restando il limite minimo di cui al primo comma dell’articolo 10. Saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi

2-quinquies. Il detenuto o l’internato nei confronti del quale è stata disposta o prorogata l’applicazione del regime di cui al comma 2, ovvero il difensore, possono proporre reclamo avverso il procedimento applicativo. Il reclamo è presentato nel termine di venti giorni dalla comunicazione del provvedimento e su di esso è competente a decidere il tribunale di sorveglianza di Roma. Il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento

2-sexies. Il tribunale, entro dieci giorni dal ricevimento del reclamo di cui al comma 2-quinquies, decide in camera di consiglio, nelle forme previste dagli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale, sulla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento. All’udienza le funzioni di pubblico ministero possono essere altresì svolte da un rappresentante dell’ufficio del procuratore della Repubblica di cui al comma 2-bis o del procuratore nazionale antimafia. Il procuratore nazionale antimafia, il procuratore di cui al comma 2-bis, il procuratore generale presso la corte d’appello, il detenuto, l’internato o il difensore possono proporre, entro dieci giorni dalla sua comunicazione, ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del tribunale per violazione di legge. Il ricorso non sospende l’esecuzione del provvedimento ed è trasmesso senza ritardo alla Corte di cassazione. Se il reclamo viene accolto, il Ministro della giustizia, ove intenda disporre un nuovo provvedimento ai sensi del comma 2, deve, tenendo conto della decisione del tribunale di sorveglianza, evidenziare elementi nuovi o non valutati in sede di reclamo.

2-septies. Per la partecipazione del detenuto o dell’internato all’udienza si applicano le disposizioni di cui all’articolo 146-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.”. Se c’è un difetto in questa norma, e c’è, è a beneficio dei detenuti, ma non dico qual è. Ci sono gli avvocati per questo.

44) Alcuni sulla scia di Sciascia hanno paragonato interventi eccezionali nella lotta alla mafia come il 41 bis e ogni altra forma di legislazione speciale come un rigurgito di spirito fascista e di pratica non-democratica nell’affrontare le problematiche criminali. Lei che ne pensa?

R. Non conosco lo Sciascia-pensiero, salvo uno sciagurato articolo circa i ‘professionisti dell’antimafia’, che abiurò proco prima di morire (era stato male informato). Il 41-bis fu introdotto dalla c.d. “legge Gozzini”, che abrogò l’art.90 (Esigenze di sicurezza), che era troppo rigido e generico. Non sono di destra né mai lo sarò, ma credo si capisca che nell’espressione ‘legislazione speciale’ nell’Italia repubblicana possa significare solo ‘a termine’ e dettata da esigenze eccezionali. In tutto ciò non mi pare si possano rintracciare sintomi di rigurgito fascista, che invece individuo nella politica nazionale attuale, tendente a forme inaccettabili di autoritarismo.

45) Secondo lei è vero che in Italia il processo e la pena sono essenzialmente “classisti”, e chi appartiene a particolari categorie gode di tutta una serie di supertutele, mentre i poveri cristi sono lasciati essenzialmente a loro stessi?

R. Sì, oggi più che mai.

46) Perché è stato considerato un direttore “scomodo”? C’era qualche differenza nel modo di agire suo rispetto a quello di molti altri suoi colleghi?

R. Perché non incline a compromessi e ruffianerie. Sì molta differenza: a molti piaceva la tranquillità, a quasi tutti mancava il coraggio di provare.

47) E se pensa ai direttori di carcere attualmente in attività la sua valutazione è essenzialmente positiva o negativa?

R. Preferisco non rispondere.

48) Lo rifarebbe? Se rinascesse, farebbe di nuovo il direttore?

R. Se me l’avessero permesso, se la legge lo permettesse (ora solo fino a 70 anni, ma gli ultimi tre mi sono stati negati) lo starei ancora facendo!

49) Se le chiedessero cosa ha imparato degli esseri umani in tanti anni di attività, quale sarebbe la prima risposta che darebbe?

R. Che bisogna sperare sempre, che in ogni essere umano c’è una scintilla di umanità, che bisogna farla attivare, che non devono le delusioni far demordere dal tentare con tutti. Certo, vi sono le grandi organizzazioni criminali, lì è difficile ipotizzare una parvenza di umanità.

50) Qual’ è la più brutta situazione cui ha assistito nel suo carcere?

R. La morte per suicidio e l’uccisione di un detenuto nei bagni ad opera di tre camorristi, individuati e fatti condannare.

51) Quale la più bella?

R. Il risorgere della speranza in chi non vi credeva più.

52) Crede ancora nella giustizia?

R. No, non oggi, non per colpa dei magistrati.

53) Quali sono le sue attività principali da quando è andato in pensione? Si sente sempre vicino al mondo del carcere?

R. Informare. No, non mi è stato consentito.

54) Chi è Luigi Morsello?

R. Uno che ha avuto la pazienza di rispondere a 53 domande, la 54esima la più scomoda.

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