venerdì 23 aprile 2010

La proprietà e la Carta


di Lorenza Carlassare

La nostra Costituzione è il “risultato della confluenza dell’ideologia socialista e di quella cristiano sociale con quella liberale classica” (Bobbio). Lo si vede in particolare nel titolo III che, dopo le norme a protezione dei lavoratori (artt. 35-40), tutela la libertà economica: all’affermazione di un diritto e di una libertà segue subito l’indicazione di limiti e fini: “L’iniziativa economica privata è libera”, ma non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e l’attività economica può essere indirizzata “a fini sociali” (art. 41). Della proprietà privata “riconosciuta e garantita dalla legge” (art. 42) la legge stessa può determinare i modi d’acquisto, di godimento e i limiti “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Lo schema è costante; anche alla proprietà terriera privata (art. 44) la legge “impone obblighi e vincoli” al fine di “conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali”, fissa “limiti alla sua estensione… promuove e impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive, aiuta la piccola e media proprietà”. L’obiettivo di fondo non è eliminare l’iniziativa economica e proprietà privata – costituzionalmente riconosciute e come tutti i diritti (a partire dall’art. 13) limitabili soltanto con legge del Parlamento – ma renderle “accessibili a tutti” (l’art. 42 riecheggia la Rerum Novarum). Un pensiero unitario domina la Costituzione economica: allargamento del numero dei proprietari, difesa della funzione sociale della proprietà e dell’attività economica. Non par dubbio che la dottrina sociale cattolica abbia esercitato un influsso preminente: il programma economico sociale della Costituzione, se realizzato, non porterebbe infatti a una società socialista con un’economia diretta dallo Stato, e neppure a una società dominata dalle grandi imprese private, ma ad una società dove la proprietà è diffusa e non concentrata. Gli articoli successivi ne sono la riprova: la Repubblica promuove la cooperazione a carattere di mutualità e lo sviluppo dell’artigianato (art. 45), riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende “nei modi e limiti stabiliti dalla legge” (art. 46), incoraggia e tutela il risparmio favorendone l’accesso “alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese” e, a tali fini “disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito” (art. 47). Norma quanto mai opportuna, visto le recenti ‘gesta’ delle istituzioni bancarie e il poco o nullo rispetto per i risparmiatori! Dagli atti dell’Assemblea costituente risulta chiaro come tutti, al di là delle differenti visioni dell’economia, dai comunisti ai democristiani ai liberali fossero concordi nella lotta alle “concentrazioni monopolistiche”. Alle parole di Togliatti e Fanfani si aggiungono quelle di Einaudi, economista liberale, per il quale i monopoli sono “il male più profondo”, “il danno supremo dell’economia moderna”, “vera fonte della disuguaglianza, vera fonte della diminuzione dei beni prodotti, vera fonte della disoccupazione delle masse operaie”. In questo clima fu approvato l’art. 43: “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie d’imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano preminente interesse generale”. Due le condizioni, dunque, perché le imprese possano essere espropriate: che “abbiano preminente interesse generale”; che siano relative “a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o a situazioni di monopolio”. La previsione di forme autoritative d’intervento pubblico ha quindi carattere eccezionale, la Costituzione non ha inteso incamminarsi sulla strada del collettivismo. Tuttavia il comma 3 dell’art. 41 “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” implica, almeno, un indirizzo di politica economica che tenga conto dei fini sociali. Come si conciliano le indicazioni della Costituzione col “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” su cui si fonda l’Europa? Molto ne hanno discusso giuristi ed economisti. L’opinione che non siano incompatibili parte dalla libertà d’iniziativa economica che, data la pluralità e coesistenza di più soggetti che ne usufruiscono, è legata al principio della libera concorrenza , a un mercato “regolato” (come vuole l’Europa) da una disciplina antitrust. Una disciplina “che predetermini le regole del gioco valide per tutti”, assicurando la libera esplicazione su un piano di parità delle capacità imprenditoriali di tutti gli operatori: “La libertà di pochi è potere, non libertà” dice Alessandro Pace. Del resto una disciplina antimonopolistica è già implicita nell’intento di evitare il rischio di monopoli espresso alla Costituente da tutte le parti politiche e formalizzato nell’art. 43. Un mercato ‘regolato’, una libera concorrenza che non incida però su altri interessi primari tutelati dallo stesso art. 41 che fonda la libertà economica. Negli ultimi decenni l’idea del primato dell’economia sulla politica ha inciso sul nostro sistema mettendo in ombra valori essenziali. L’alternativa (scrive Natalino Irti) è tra “ordine giuridico del mercato e mercato degli ordini giuridici” dove gli Stati, in concorrenza, offrono alle imprese benefici e immunità per attirare gli affari entro le rispettive sfere anziché rivendicare il primato delle decisioni politico-giuridiche e assumere il governo dell’economia.

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