venerdì 23 aprile 2010

La prova dei fatti


di Paolo Flores d’Arcais

Le parole ci sono state. Chiare, e anche coraggiose, visto il prevedibile ringhiare della platea berlusconiana. Quando il presidente della Camera ha spiegato che la riforma della Giustizia non può significare impunità, si è infatti scatenata la canea inferocita.

Ora viene il momento delle cose, e su questo Gianfranco Fini si gioca il futuro, la credibilità, la stessa dignità. Tra qualche settimana in Parlamento comincia la discussione proprio sulle leggi che regalano impunità a nutrite categorie di criminali.

Si comincia con quella sulle intercettazioni, che non solo priva polizia e magistratura di uno strumento insostituibile (contro le mafie, ma anche contro violenta-tori e rapinatori, e chi più ne ha più ne metta), ma garantisce il carcere ai giornalisti che continueranno a informare. Con il che si compie il salto dal regime populista a un pezzo di vero e proprio fascismo.

A quel punto, perciò, Fini dovrà decidere se far seguire alle nobili parole di ieri i sobri ma cruciali FATTI, cioè il voto contrario alla nuova legge-obbrobrio, o se ingiuriare la propria onorabilità con un voto che quelle parole calpesta.

Un voto coerente comporta il rischio di mettere in minoranza il governo, e anzi, se Berlusconi chiedesse su di esso la fiducia, di farlo cadere. Ma senza correre questo rischio, anzi senza la ferma volontà di bloccare ad ogni costo questo regalo alla criminalità, è evidente che l’onorevole Fini non potrebbe mai più ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino e di Giorgio Ambrosoli, e poi guardarsi allo specchio il giorno dopo.

Non potrebbe mai più vantare che ci furono uomini di destra, come l’avvocato monarchico “eroe borghese” e il magistrato che da ragazzo militò nella “Giovane Italia” dello stesso Fini, per i quali destra faceva rima con “senso dello Stato” e con “intransigenza verso la criminalità”, tanto più se di establishment.

Se Fini fa sul serio deve mettere in conto – sul dilemma legalità/impunità – di far cadere il governo. Se cede, Berlusconi non gliene sarà grato, ma saprà di poterlo annientare senza neppure pagare dazio. Mentre da una crisi di governo non scaturiscono di necessità elezioni anticipate, bensì la possibilità di un governo di “lealtà costituzionale”, che restauri le condizioni – oggi assenti – per un voto democratico.

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