venerdì 23 aprile 2010

Il palco diventa un ring. E Fini sfida: “Che fai mi cacci?” BERLUSCONI VA ALL’ATTACCO E PROVA L’AFFONDO, MA LA DIREZIONE SI TRASFORMA IN RISSA MEDI



Il palco diventa un ring. E Fini sfida: “Che fai mi cacci?”
BERLUSCONI VA ALL’ATTACCO E PROVA L’AFFONDO, MA LA DIREZIONE SI TRASFORMA IN RISSA MEDIATICA
di Luca Telese

Perché, che cosa fai? Mi cacci? Eh?”. E allora Gianfranco Fini sorride ironico, fa il gesto della mano a pendolo, via-via e di nuovo: “Che fai, mi cacci?”. Poi si alza in piedi, avanza verso Silvio Berlusconi, punta il dito e gli ripete la frase a un metro di distanza rovinandogli il finale del discorso.

Una delle immagini che resteranno di questa giornata, assieme alle mani impotenti del premier che fanno stringi-stringi per chiedere a Verdini di mettere fine all’intervento del rivale. Insieme a quel moto di rabbia che lo porta sul palco subito dopo. Insieme alle parole a pesce, gridate senza audio dal microfono non collegato, mentre parla il suo grande nemico.

Ai materassi. Alla fine del discorso di Fini c’è una stretta di mano algida, tra i due, senza guardarsi in faccia. Poi Berlusconi sale sul palco per replicare. E’ furibondo, nero, gli occhi sono due fessure, sembrano pesti. Ma al contrario di Fini non ha una scaletta pronta. Parla a braccio, e finisce il suo discorso nel battibecco: “Un presidente della Camera – grida – non deve fare dichiarazioni politiche! Se le vuoi fare devi lasciare la carica, ti accoglieremo a braccia aperte, ma ti devi dimettere!”.

Leso format. Alla fine, il gesto che Berlusconi non perdona all’ex leader di An è il reato di lesa maestà. Anzi, di più: leso format. Ovvero il peggio che potesse capitare a un cultore del rito catodico come Silvio Berlusconi: allestire una coreografia studiata nei minimi dettagli, una liturgia mediatica, una scaletta precisa, e vedersela stravolta da un imprevisto. Prepararsi la scena come protagonista, sul podio dell’Auditorium di via della Conciliazione, trasformato ancora una volta in set televisivo dal fido regista Giuseppe Sciacca (un maestro, quello della Corrida e dei congressi di Forza Italia) e ritrovarsi poi, invece, nel ruolo del co-protagonista, relegato nel controcampo delle inquadrature che facevano da contrappunto al discorso di Fini, avendo dietro alle spalle una tenda nera (quella alle spalle della presidenza) invece del fondale azzurrino.

Lui seduto e livido; Fini in piedi, ironico. La scaletta predisposta dal premier era questa: prima il suo saluto, poi l’intervento di tutti i ministri anti-finiani, persino qualche sottosegretario (come Alfredo Mantovano), quindi – come aveva detto lui stesso – “la parola ai co-fondatori del partito, Fini, Rotondi, Giovanardi”. Orologio alla mano Fini avrebbe parlato non prima delle 16:00, unica voce dissonante nel coro. E Berlusconi avrebbe concluso. Intervento imprevisto. Ma tutto il programma salta.

Dalla sera prima il presidente della Camera fa sapere che non accetterà il ruolo di comparsa. La mattina il nodo non è sciolto. Al premier arrivano diversi messaggi: “Gianfranco non ci sta”. Alle 11:50 Berlusconi guarda Fini, lo vede alzarsi. Forse pensa che stia per andare via. Allora improvvisa: “Gli chiediamo se vuole prendere la parola, siamo qui ad ascoltarlo...”. Fini non se lo fa dire due volte. Sale sul podio: invece di dieci minuti parlerà un’ora. Una vera e propria relazione.

La prima bordata arriva subito: “Anche nella regia, oggi sembra che ci sia l’atteggiamento un po’ puerile di chi vuole nascondere la polvere sotto il tappeto!”.

Poi le mozioni d’orgoglio: “Sono abituato a dire quello che penso...”. Quindi la prima stoccata: “Vedi, Bondi! Sono stato oggetto di trattamenti mediatici, da colleghi, mi riferisco ai giornalisti, lautamente pagati da stretti familiari del presidente del Consiglio!”. Sulla sala cala il silenzio, il discorso di Fini si impenna: “Sono stato accusato di alto tradimento, oggetto di bastonate mediatiche, roghi, ipotesi di licenziamento...”. Poi il cambio di passo che taglia il fiato ai membri della direzione.

Si rivolge direttamente al premier, guardandolo: “Berlusconi te lo dico in faccia: il tradimento che è certamente poco dignitoso, viene da chi alle spalle dice il contrario di ciò che dice pubblicamente, raramente il tradimento è nella coscienza di chi si assume la responsabilità di quel che pensa in privato e in pubblico...”. E qui il premier sbotta. La regia lo inquadra. Si agita. Non si sente cosa dice. Quando arriva l’audio la voce è strozzata: “...Non attribuire a me cose che non ho mai dettooo!”.

Il palco è diventato un ring, un corpo a corpo.

Formalmente Fini ribadisce la fiducia al governo, tributa al premier i suoi meriti, ma allo stesso tempo compone il suo j’accuse spietato: “Al nord siamo diventati come la fotocopia della Lega!”. Fini cita le mire di Bossi sulle banche, la rinuncia del Pdl ad abolire le province, i decreti sul federalismo, il fatto che “difendere il bambino del padre extracomunitario che perde il lavoro, cacciato dalle scuole è rispetto della dignità dell’uomo”.

Spara una raffica di domande retoriche: “E’ eretico dire che i medici non devono fare la spia?”. Si può accettare che “in Lombardia ci siano solo professori lombardi, e in Veneto veneti?”.

Processi cancellati. Il vero show down è sul conflitto di interessi. Prima Fini attacca sulla proprietà de Il Giornale, poi sulla giustizia: “Difendere la legalità significa andar fieri degli arresti, ma anche non dare l’idea che la riforma della Giustizia non serve a creare sacche di privilegio....”. La platea a questo punto fischia. Fini insiste: “Ricordi la nostra litigata sul processo breve? 600 mila processi cancellati dalla sera alla mattina!”. Di nuovo Berlusconi grida, dalla presidenza: “Ma dai, Gianfrancoooo!”: E lui, passando al chiamarsi per nome: “Silvio, è inutile che mostri insofferenza...”.

Il premier sale sul palco infuriato, contrattacca: “Il nostro partito è stato esposto al pubblico ludibrio con le presenze in televisione di Bocchino, di Urso e Raisi!”. E sul Carroccio: “La verità, come mi ha spiegato La Russa, è che la Lega è la fotocopia delle posizioni abbandonate da An!”. Allora Fini pizzica il suo ex colonnello, sarcastico: “Bravo, Ignazio, bravo...”. La Russa si sbraccia come per di re no-no. Si arriva al cataclisma. Berlusconi: “Sei venuto da me a dire: ‘Mi sono pentito di aver fatto il Pdl! A dirmi: ‘Voglio fare un altro gruppo!!!’”. E Fini, in piedi: “Ma che stai dicendo!”.

Il retroscena è morto, meglio: è tutto sulla scena. Il voto finale conta zero. L’uomo che ha vinto grazie alla tv, ha perso un duello tv, sulla sua tv: una vittoria numerica, una sconfitta mediatica. Il partito dell’amore finisce a pesci in faccia.

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