lunedì 26 aprile 2010

“NOI NON MOLLIAMO”


Italo Bocchino, da Tatarella alla svolta: “An discuteva” Un uomo nel mirino: “Non mi sento un martire”

di Luca Telese

Alessandra Mussolini lo insulta nel modo più scontato del mondo: “Con quel cognome non dovrebbe nemmeno parlare!”. Silvio Berlusconi ha tuonato al telefono: “Non voglio più vederlo in televisione”, e poi lo ha persino chiamato: “Non puoi andare a Ballarò!”. Un altro incredibile effetto del big bang del Pdl all’Auditorium della Conciliazione (si fa per dire) è la compilazione di nuove liste di proscrizione in cui incasellare gli oppositori riluttanti ad adeguarsi al pensiero del faraone.

Come i dieci piccoli indiani di Agatha Christie, gli undici dissidenti che hanno votato con Fini, adesso, vengono inseguiti uno a uno: “Urso, Bocchino e Raisi - ha tuonato Silvio Berlusconi dal palco - hanno esposto il partito al pubblico ludibrio”. Ma per il giovane vicecapogruppo del Pdl c’è qualcosa di più. Intanto è più esposto perché ha un ruolo istituzionale. E poi, colpire lui è più facile che colpire Fini, ed è un modo per dare una prova di forza al suo leader. Per di più, al “fuoco nemico” di chi lo bolla come un traditore si aggiunge persino il “fuoco amico” di qualcuno che, nell’ala più morbida della pattuglia finiana, lo accusa di “protagonismo” o di “fighettismo”. Qualcun altro ancora, come il campano Amedeo Laboccetta (che subito dopo ha fatto atto di contrizione intervenendo per riposizionarsi) ha persino detto: “Se siamo arrivati a questo punto è tutta colpa sua”.

Così, nel momento in cui tutti lo crocifiggono, il paradosso vuole che Bocchino abbia però conquistato la visibilità assoluta della star, che fino a ieri gli era mancata. Lo vogliono in tutti i programmi (e lui ci va, malgrado gli anatemi belrusconiani). Lo accusano di essere di destra “per finta” un “liberal” (da quelle parti un’offesa sanguinosa) persino un consigliere che ha portato Fini sulla cattiva strada. E lui può permettersi di sfoderare dall’album dei ricordi una foto di quando da bambino, stringeva la mano a Giorgio Almirante. “A quel tempo ero in Umbria, mio padre era un segretario di sezione del Msi, per me Almirante era un simbolo”. Qualcuno di quelli che in direzione hanno crocifisso Fini e Bocchino accusandoli di essere fuori dalla linea, ironia della sorte, all’epoca erano (come Sandro Bondi) nel Pci. Sì, è un momento in cui nella battaglia politica i paradossi si sommano e si moltiplicano. Come il fatto che oggi Bocchino sia avversato da Gasparri. Mentre proprio per prendere le sue parti, il vicecapogruppo era caduto in disgrazia: “Quando eravamo in An - ricorda lui stesso - Fini mi degradò, fra l’altro, perché avevo difeso Maurizio, improvvisamente destituito dal ruolo di ministro”. Pentito? “Nemmeno un po’. Credevo che Gianfranco allora sbagliasse, anche se sono d’accordo con quello che dice ora, e credo oggi che Maurizio fosse stato trattato male, malgrado quello che dice oggi. Un cardine della laicità dovrebbe essere non cambiare idea a seconda delle utilità politiche del momento”. Certo, Bocchino non è una mammola. Alle Regionali scorse prese una mazzata terrificante quando venne sconfitto da Antonio Bassolino in Campania. Ed era finito persino nell’inchiesta sull’imprenditore Romeo, per alcune intercettazioni in cui parlava di “un sodalizio”. Ma se suscita tutte queste attenzioni, e tutte queste critiche, è anche perché è il prototipo antropologico del nuovo finiano. Volto telegenico, montature trasparenti, eloquio brillante e molta flemma, ma anche - come si è visto da Paragone e da Santoro - grande verve di polemista. Adesso che è diventato Bocchino-l’uomo-nel-mirino non si scompone più di tanto: “A noi il fatto di essere in minoranza non ci spaventa per nulla, al contrario di molti colleghi di Forza Italia siamo cresciuti in un partito abituato al pluralismo” (e talvolta anche alle sediate). Nel 1996 Bocchino era il portaborse di Tatarella, e un giorno Pietrangelo Buttafuoco gli rubò (a sua insaputa) il tesserino da collaboratore per pubblicarlo sull’Italia settimanale. Era uno sfottò. Ma oggi di quel rapporto discepolare con Tatarella e di quella prova di essere stato un portaborse dice: “Ne vado orgoglioso”. È sposato con la produttrice Gabriella Buontempo, ha una casa a Parigi, cita il modello delle destre europee, e - come tutti i finiani, in queste ore - prova a minimizzare: “Non mi sento un martire né un perseguitato. Ma di sicuro non molliamo il punto”. Nessuno può dire, però, per quanto tempo ci sarà posto per loro nel partito dell’amore.

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