venerdì 30 aprile 2010

Occhio alla penna


di Marco Travaglio

Diciamo subito, a scanso di equivoci, che il presidente della Repubblica ha fatto benissimo a respingere al mittente, sia pure soltanto per qualche chiarimento, il decreto Bondi sui teatri lirici.

Il nome dell’autore, James Bondi, che l’altra sera abbiamo visto in stato particolarmente confusionale a Ballarò, è una garanzia di non promulgabilità. Più in generale, l’espressione “respinto al mittente” associato al nome Napolitano a proposito di un qualunque provvedimento governativo, è musica celestiale per le nostre orecchie: tanto più celestiale in quanto rara.

Ma qualche domanda, a questo punto, s’impone. Il decreto sui teatri d’opera era in gestazione da mesi, tant’è che aveva sollevato le proteste di tutti gli enti interessati, a cominciare dagli orchestrali di Bologna. C’era insomma tutto il tempo per esercitare la famosa “moral suasion”: quella prassi, da noi più volte criticata, che vede il capo dello Stato impegnato a persuadere il governo a cambiare una legge o un decreto prima che venga approvata/o, onde evitare uno “scontro istituzionale” al momento della firma o della non-firma.

Questa volta, invece, pare che nessuna moral suasion sia scattata e che il presidente abbia lasciato andare il ministro fino in fondo, salvo poi respingergli la legge. Dobbiamo dedurne che è finita l’èra della moral suasion, o che sulla decisione hanno influito le uova che l’altro giorno volavano ad altezza uomo all’ingresso del Teatro alla Scala, presidiato dalle maestranze inferocite?

In entrambi i casi, c’è di che esultare: sia nel caso in cui il presidente abbia deciso di attendere silente i provvedimenti del governo e del Parlamento e di giudicarli soltanto alla fine, senza partecipare con improprie “consulenze” che lo trascinano nella confezione delle leggi e dei decreti, lo trasformano in coautore dei medesimi e lo condizionano al momento della valutazione finale; sia nel caso in cui abbia ascoltato la rabbia della piazza.

Nel secondo caso, si dimostrerebbe che è cosa buona e giusta “tirarlo per la giacca”, condotta sempre aborrita come disdicevole e quasi eversiva dai giornali pompieri e dai diversamente concordi del Pd.

Già che ci siamo, azzardiamo un secondo interrogativo tutt’altro che impertinente: fermo restando che Napolitano fa benissimo a respingere un decreto che non lo aggrada, siamo proprio sicuri che abbia fatto benissimo a firmarne tanti altri? Possibile mai che le uniche leggi meritevoli di non essere firmate, in quattro anni di presidenza Napolitano, fossero quella sull’arbitrato nei contratti di lavoro e quella sugli enti lirici? E le norme razziste sulla schedatura dei bambini rom? Sul reato, anzi sul non reato di clandestinità? Sugli aumenti di pena per i delitti degli extracomunitari, puniti più severamente degli stessi reati commessi dagli italiani? E il recente decreto salva-liste che addirittura modificava le norme elettorali in piena campagna elettorale, in barba alla legge del 1988 che proibisce la decretazione in materia elettorale e al principio cardine per cui le leggi regionali non sono riformabili dal governo centrale? È solo un caso se le uniche due leggi respinte dal Quirinale sono fra le pochissime che non riguardano gl’interessi aziendali, processuali o elettorali del presidente del Consiglio?

Ieri Massimo D’Alema, intervistato dal Corriere, è riuscito a dare ragione a Napolitano anche a proposito dell’intemerata dell’altro giorno ai magistrati: non si può “difendere tutto quello che fanno i magistrati”, bisogna avere il coraggio di criticarli quando “diventano parte del gioco politico”.

Ecco, sarebbe interessante sapere quando, chi e come, nella magistratura, ha invaso il sacro suolo della politica: indagando affaristi che, in combutta con politici, scalano illegalmente banche, o rubano fondi pubblici in Calabria, o procurano case gratis a ministri? Non sarà che, più che magistrati che invadono il campo politico, abbiamo politici che invadono il codice penale? Così, tanto per sapere.

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