C’era una volta «la linea». Così si chiamava nei partiti di sinistra— socialdemocratici, socialisti, laburisti, comunisti — l’insieme di indicazioni che il centro diramava alla periferia su tutti i temi politici del momento. Nel Pci la linea era diffusa mediante fascicoletti facilmente comprensibili anche dal più sprovveduto segretario di sezione, ma soprattutto attraverso il giornale di partito. Chi ha una certa età ricorda ancora le vignette di Giovanni Guareschi intitolate «obbedienza cieca, pronta, assoluta», quelle che mostravano un militante trafelato che accorre sventolando l’Unità e gridando: «Contrordine compagni. La frase pubblicata ieri sull’Unità contiene un errore di stampa e pertanto va letta…».
I compagni, i famosi trinariciuti, stavano intanto eseguendo l’ordine (la linea) del giorno prima, illustrato dalla vignetta in modo sempre spassoso, anche se talora un po’ volgare. Il mondo di Peppone e don Camillo, dei partiti ideologici di massa, dei veri giornali di partito è morto da tempo. Che cosa potrebbe dire oggi il militante che accorre trafelato in un circolo semideserto del Pd? «Cari democratici e democratiche, le affermazioni fatte ieri nei talk-show televisivi da Bersani, Franceschini, D’Alema, Fassino, Veltroni, Rosy Bindi, Fioroni, e la lista potrebbe continuare, sono state rettificate nei talk-show successivi e pertanto… cavatevela come meglio potete». La questione non riguarda solo l’organizzazione del partito, gli attivisti, il rapporto centro-periferia. Nella politica di oggi, in cui la relazione con iscritti e attivisti conta assai meno dell’immagine trasmessa dai media, la questione riguarda soprattutto la coerenza, la comprensibilità, la semplicità, il gradimento elettorale dei messaggi lanciati dal partito. È dunque inevitabile che democrazia interna ed efficacia dell’immagine mediatica entrino in tensione: se la democrazia interna produce una pluralità di leader e una molteplicità di linee che divergono per aspetti significativi, e se difettano strumenti efficaci per comporre il conflitto tra i leader e per presentare all’esterno una linea sola, ne soffre l’immagine del partito, si appanna la sua identità. Il Pdl ha sostituito la linea con il capo, il centralismo democratico con il centralismo carismatico, come lo definisce Alessandro Campi. Il centralismo carismatico non tollera l’insorgenza di dissenso interno, la formazione di correnti: da buon venditore Berlusconi si rende conto di quanto il successo del Pdl, la tenuta interna del partito e la sua immagine esterna siano affidati all’attrattiva del marchio e alla forza del capo, di un indiscusso Chief Executive Officer.
Pdl e Pd affrontano dunque due problemi simmetrici. Il Pdl quello di tollerare l’emersione di un dibattito democratico interno. Il Pd quello di porre un freno ad un conflitto di posizioni che ha superato la soglia oltre la quale l’immagine del partito diventa sbiadita o confusa agli occhi degli elettori. Il futuro della nostra democrazia dipende in misura non piccola dall’esito che avranno le sfide opposte affrontate dai due grandi partiti del centrodestra e del centrosinistra. Sfide non facili. Per il Pdl la difficoltà deriva— direbbero i sociologi — dal passaggio dal carisma all’istituzione, dall’eccezionalità alla normalità. Un passaggio sempre difficile, in cui la saggezza del capo carismatico, la sua ambizione di lasciare in eredità al Paese un partito che stia in piedi anche dopo che si sarà ritirato dalla politica sono essenziali. Oggi è il momento della verifica. Per quanto irritanti Berlusconi abbia trovato le critiche di Fini, egli deve rendersi conto che si tratta della prima vera prova di democrazia interna cui il Pdl è chiamato, e che deve inventare—ora che ha la forza per farlo—un accomodamento che salvi insieme democrazia e «linea». Altrimenti il suo partito si sfascerà quando non ci sarà più lui a dirigerlo, quando sarà affidato a dirigenti «normali».
Nelle sue concitate risposte a Fini non ha usato l’espressione «centralismo democratico», ma il succo del suo argomento puntava in quella direzione: discussione anche accesa, ma poi esecuzione leale della linea risultata maggioritaria. Perché no? Non è anche quello che ha promesso Fini? Ancor più difficile—non foss’altro perché riguarda un’intera dirigenza e non un uomo solo—il compito che attende il Partito democratico. «Con questi dirigenti non vinceremo mai», sbottò Nanni Moretti dopo la sconfitta del centrosinistra nel 2001. Ma non si tratta solo di una questione di persone, risolvibile passando la mano alla generazione successiva: questa è altrettanto divisa della precedente. Si tratta della crisi del progetto politico che ha attraversato l’intera Seconda Repubblica, il progetto dell’Ulivo, il tentativo di fondere le tradizioni riformistiche della Prima Repubblica nel crogiuolo di un nuovo partito di centrosinistra. La temperatura del crogiuolo non è arrivata al punto di fusione ed è molto difficile che ci arrivi adesso. Lo spirito di sopravvivenza potrebbe però produrre gli effetti che l’entusiasmo e il sogno non hanno prodotto, un modello di partito in cui i dissensi ci sono, ma non minacciano l’autorevolezza del segretario e la formazione di una linea coerente ed efficace. È un po’ buffo che il modello di organizzazione di un partito che non credeva nella democrazia—il centralismo democratico—sia proposto a due partiti che invece alla democrazia credono. Ma la storia talora produce questi scatti ironici.
Michele Salvati
24 aprile 2010
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