LO SCRITTORE SPIEGA LA FORZA DELLA PAROLA
di Loris Mazzetti
Gomorra, il libro di Roberto Saviano, è stato accusato da Silvio Berlusconi di essere “supporto promozionale alle cosche”. Non c’è mai limite all’indecenza, soprattutto quando certe parole escono dalla bocca di una delle massime istituzione del nostro Paese. Non è la prima volta che il presidente del Consiglio si esprime contro chi scrive di criminalità organizzata. La volta scorsa fu a novembre, sempre in occasione del processo del suo amico Marcello Dell’Utri: allora disse che dovevano essere “strozzati” tutti quelli che hanno fatto la “Piovra” e che scrivono libri su Cosa Nostra perché “ci hanno fatto conoscere nel mondo per la mafia”.
Il giorno in cui il pm chiede per Dell’Utri una condanna a undici anni per concorso esterno in associazione mafiosa, il premier se la prende con un grande scrittore che da quattro anni vive sotto scorta. Roberto Saviano ha un’unica responsabilità: quello di aver illuminato i fatti, di aver fatto conoscere all’Italia e al mondo i casalesi, di aver acceso la luce sulla camorra. Sono convinto che tanti magistrati, soprattutto quelli che stanno in prima linea, la pensano diversamente da Berlusconi, perché quella luce serve anche a loro. Ha scritto Giuseppe Fava: “Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici il buon governo”. Conosco Saviano da anni. E’ forte. Ha la capacità di usare la parola come un’arma in grado di combattere la criminalità organizzata, non credo di averla riscontrata in nessun altro scrittore o giornalista. Questo ha portato Roberto Saviano ad essere considerato un uomo a rischio della propria vita, condannato dai Casalesi, dai camorristi dello stesso paese dove lui è nato e vissuto fino agli anni del liceo, è anche la sua forza e la sua grande difesa. Per la stragrande maggioranza delle persone lui è il nuovo eroe, è il moderno Lancillotto, il cavaliere della Tavola Rotonda della giustizia e dell’onore che combatte contro gli usurpatori e i tiranni a difesa del popolo oppresso dalla camorra; per altri invece è quello che ha infangato la sua terra e che non doveva raccontare quella criminalità. L’accusa di fare cattiva pubblicità all’Italia è infamante non solo per Saviano ma per tutti quei giovani che continuano a vivere nei luoghi della camorra e a lottare quotidianamente nella terra con più morti ammazzati d’Europa e come ha scritto Saviano: “Nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere. Dove tutto ha il sapore di una battaglia finale.” L’intervista che segue è tratta dal nostro incontro in occasione della scrittura de La macchina delle bugie.
Roberto ho la sensazione che la tua sia diventata una missione.
Forse sì. Io ritengo la responsabilità della parola quasi sacra. So bene che uno scrittore non dovrebbe prendersi troppo sul serio, ma a me sono accadute cose che non mi permettono questo distacco. Mi sono reso conto che la parola che sono riuscito a usare, una volta superata una certa linea d’ombra, una volta uscita dagli ambiti soliti degli addetti ai lavori, ha ottenuto un effetto impensabile, quasi miracoloso: è diventata strumento per altre persone per conoscere la realtà della camorra o per farla conoscere. La mia parola ha consentito ad altri di tirare fuori la voce.
Lo hai detto anche nell’intervista che ti fece Enzo Biagi che è stata la rabbia che ti ha spinto a scrivere Gomorra, cito testualmente: “Era tanta la rabbia da far stringere i pugni persino quando scrivevi…”.
Sì. Può sembrare questa un’immagine romantica, ma in realtà è proprio così. Mi trovai con un mio vecchio amico e ci dicemmo che la rabbia era così tanta che bisognava scrivere sulla tastiera del computer con le nocche. Lo giuro, l’immagine mi era venuta in mente dopo aver seguito la faida di Scampia, ero stato sul luogo dell’omicidio di Attilio Romanò, era gennaio 2005, e questo ragazzo innocente era stato freddato nel negozio dove lavorava, il corpo crivellato di colpi e sangue dappertutto. Quanto tornai a casa cominciai a battere sulla tastiera solo con la mano destra, mentre la sinistra, senza accorgermene, era chiusa a pugno, sino quasi a farmi male. Questo mi colpì. Non solo ero disgustato dall’omicidio, ero anche terribilmente arrabbiato perché per i media nazionali quella vittima apparteneva ai soldati di camorra: morire in una certa terra significava essere colpevoli in partenza. La rabbia è vera, nasce dentro di me. È stato sicuramente il primo motore che mi ha portato a scrivere.
Sei considerato uno dei più grandi esperti di camorra, tieni conferenze anche agli addetti al lavoro, nel tuo intimo esiste una ricetta su cosa bisognerebbe fare?
Veramente non so dove iniziare. Sicuramente so che dal momento in cui blindi i subappalti, l’attenzione nazionale diventa costante, permetti ai giudici di lavorare in maniera concreta, smetti di dare strumenti soltanto per la repressione, quei poteri criminali cominciano a inciampare, a cadere, a sentirsi stretti, ad avere il fiato sul collo. Faccio un esempio: il voto di scambio è fondamentale. Il problema non è arrestare chi lo compra con 50 euro, quello non si farà prendere mai. Non si dovrebbe far sentire il voto così inutile perché, chi lo vende per 50 euro, lo considera una cosa priva di valore. Pensa che chiunque venga eletto, farà soltanto i propri affari o gli affari di chi lo vuole mettere lì, tanto vale guadagnare un cellulare, 50 euro, una bolletta pagata. Bisogna partire da questo, invece di reprimere o arrestare chi accetta i 50 euro. A questa persona bisognerebbe fargli capire con azioni concrete che tutto sta cambiando, e che non è solo retorica quando si diceva che “il principio primo della democrazia è la partecipazione”. Oggi è esattamente il contrario: che governi la destra o la sinistra, secondo la percezione dominante tanto è la stessa cosa, tutti sono ladri, pensano solo al proprio tornaconto.
In certe zone dell’Italia bisognerebbe mantenere i fari accesi, bisognerebbe illuminare quelle terre. La criminalità organizzata ha bisogno invece di silenzio per poter fare i propri affari. Credo che una grande responsabilità ce l’abbiano i mezzi d’informazione, in particolare la televisione, che per illuminare fa ben poco. Non pensi che questo dipenda anche dal fatto che la mafia sta all’interno dell’economia e quindi riesce in qualche modo a controllare tutto?
Sì. Alla fine tutti i media si accorgono delle mafie esclusivamente quando ci sono gravi attentati, molti morti, due giorni in prima pagina poi il silenzio. È veramente assurdo. Le mafie in Italia hanno ucciso 10 mila persone, una cifra maggiore dei morti della striscia di Gaza. La guerra tra palestinesi e israeliani da vent’anni apre i telegiornali di tutto il mondo. Le mafie hanno ucciso più di qualsiasi organizzazione terroristica. Da noi il terrorismo, durante gli anni di piombo, ha fatto 600 morti, quanti in due anni a Napoli. Questi dati ci fanno capire la disattenzione, la miopia che c’è stata da parte dell’informazione televisiva su un fenomeno che già di per sé non è locale e che ha tutte le premesse per essere un problema e uno scandalo internazionale. Perché non si è parlato delle mafie per quello che sono? Io mi sono dato delle risposte. Non c’è assolutamente censura, c’è indifferenza, sono fatti considerati locali, per le persone che vivono al Nord sono avvenimenti lontani, mentre al Sud non si comprano i giornali nazionali. La televisione non racconta le vere storie di mafia e quando le racconta lo fa in maniera folkloristica.
C’è una frase di Dalla Chiesa che mi ha sempre colpito: “Lo Stato dia come diritto ciò che le mafie danno come favore”.
È una frase fondamentale, perché è la prima cosa che le mafie fanno, oggi anche ad altissimo livello e non solo con i disperati dei quartieri disagiati. Il racket è una fornitura di servizi ineccepibile, pagarlo in molte realtà significa che i camion ti arrivano puntuali, che le banche ti aiutano. Le mafie diventano il garante per far avere prestiti alle imprese, che non ci siano furti nei cantieri. Pagare l’estorsione significa comprare un pacchetto di servizi. La frase del generale Dalla Chiesa oggi ha più valore di quando l’ha pronunciata, ed è fondamentale per capire che cosa sono le organizzazioni criminali, che spesso si sostituiscono all’inefficienza della burocrazia dello Stato, grazie ai contatti con i comuni, ai loro uomini nei municipi, tra i vigili urbani. Questa loro tecnica l’hanno portata anche nell’Est Europa, diventando il passepartout anche per le imprese sane, come è avvenuto in Macedonia, in Ungheria, in Albania.
Di cosa hanno bisogno i giovani delle tue terre, delle terre di camorra, mafia, ’ndrangheta?
Due cose: la prima, che sento molto mia, di non essere costretti ad emigrare. L’emigrazione deve essere una scelta, una possibilità per specializzarsi, per migliorarsi, non una necessità, una costrizione. Spesso in queste terre restano quelli che non hanno avuto le qualità per emigrare. O quelli che lo pensano di se stessi. Non deve più essere così. Dal Sud ogni anno emigra la quasi totalità di laureati. La seconda, di poter vivere in una realtà in cui il proprio talento sia spendibile, basta ascoltare qualsiasi ragazzo, che sia chimico o carpentiere, che lavori a Londra o ad Oxford o a Ferrara, che è stato scelto perché bravo, che ha avuto l’occasione di poter mostrare quello che vale. Nel Sud, invece, il talento non basta, deve sempre esserci la protezione, la mediazione, bisogna accontentarsi e poi implorare, il lavoro diventa un privilegio che ti è stato dato, e in cambio devi tacere e accettare quello che ti viene detto. Il lavoro deve essere un diritto e non un privilegio e se quel giovane decide di rimanere al Sud non deve sentirsi uno sconfitto, un fallito.
Hai mai pensato di andare via, di andare all’estero?
Sì. L’ho pensato tantissime volte. Non l’ho fatto finora perché mi sembrava un tradimento. Diceva Paolo Borsellino: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio. O si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.
7 commenti:
Il coraggio di quest'Uomo è un grande passo avanti contro i politici da strapazzo che oggi abbiamo nelle istituzioni. Oltre a Di Pietro per gli altri Saviano è un "grande problema", sta svegliando troppa gente, io dico.. FINALMENTE!!
Una grande lode a Fabio Fazio che mantiene da sempre i riflettori accesi su questo impareggiabile Coraggioso!
Il Sud, da sempre denigrato a Nord, ha partorito simili figli che per lo più sono tra i "morti ammazzati". Sono felicissima che a Nord oggi, molti altri coraggiosi, siano a fianco di Saviano.
Mister B. se la prenda in saccoccia perchè l'immagine dell'Italia all'estero l'ha infangata lui e la classe dirigente da destra a sinistra, ed oggi molti italiani lo sanno e ne stanno prendendo atto !!!!
Saviano dice cose giuste, non fosse altro perché prima di lui le stesse cose le hanno dette Giuseppe Fava, Mauro De Mauro, Pio La Torre, Giovanni Falcone, Boris Giuliano, Rocco Chinnici, Rosario Livatino, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Paolo Borsellino, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Cesare Terranova, Pietro Scaglione, Peppino Impastato, Piersanti Mattarella. Per non parlare di chi è stato ucciso dal 1860 in poi.
Tutti costoro, però, dicevano queste cose come conseguenza del loro lavoro. E non per inventarsi un lavoro.
Purtroppo bisognerebbe riflettere su una circostanza: tutti, nonostante siano stati celebrati, dopo la morte, come eroi, in vita non hanno avuto molto seguito. E anche successivamente, passate le celebrazioni, le stesse persone che oggi applaudono a Saviano sembra abbiano dimenticato le loro parole. Salvo a riscoprirle, e trovarle coraggiose, ogni volta che le ascoltano gridate ad un megafono qualsiasi.
Intanto però, se la mafia, oggi, non è padrona assoluta dell'economia e della politica - ma soltanto una delle presenze in questi due settori - lo si deve più a coloro che per primi hanno detto queste cose, che a colui, o a coloro, che oggi le ripetono tali e quali.
Inoltre, un'ulteriore riflessone, a proposito delle "coscienze scosse da queste parole", riguarda un'altra circostanza: nonostante tutto, attualmente, si verifica una situazione paradossale in cui proprio quell'imprenditore da oggetto degli strali di questi "ripetitori di concetti antichi" è non solo a capo del Governo, ma sembra quasi, ora che anche Gianfranco Fini potrebbe passare all'opposizione, che l'Italia sia destinata ad avere un governo guidato da un imprenditore, mentre tutta la politica è all'opposizione. Il centro, la sinistra e la destra fanno da cornice mentre un'impresa televisiva raccoglie, che si voglia o no, il 30 per cento dei voti validi.
E allora sembra che parlare di mafia sia diventato un parlare degli effetti invece che delle cause. Parliamo un po' della videocrazia e delle sue distorsioni, in nome delle quali anche un sia pur brillante presentatore televisivo viene celebrato come il più grande uomo del Novecento.
Roberto Ormanni
CONDIVIDO 'IN TOTO' LE RIFLESSIONI DI ROBERTO ORMANNI, AGGIUNGENDO CHE CIO' CHE HA MI SCONCERTATO DI PIU' E' LA RISPOSTA DATA ALLA DOMANDA CHE SEGUE: "Roberto ho la sensazione che la tua sia diventata una missione."
RISPOSTA:" Forse sì. Io ritengo la responsabilità della parola quasi sacra. So bene che uno scrittore non dovrebbe prendersi troppo sul serio, ma a me sono accadute cose che non mi permettono questo distacco. Mi sono reso conto che la parola che sono riuscito a usare, una volta superata una certa linea d’ombra, una volta uscita dagli ambiti soliti degli addetti ai lavori, ha ottenuto un effetto impensabile, quasi miracoloso: è diventata strumento per altre persone per conoscere la realtà della camorra o per farla conoscere. La mia parola ha consentito ad altri di tirare fuori la voce." IL GIORNALISTA-SCRITTORE SI METAMORFIZZATO IN UN MISSIONARIO.
INOLTRE, LA SUA PRODUZIONE GIORNALISTICO-LETTERARIA SI E' TRASFORMATA IN UNA MACCHINA PER FAR SOLDI GESTITA DA UNO SPECIALISTA DEL SETTORE CHE GESTISCE IL COPYRIGHT.
BASTA LEGGERE LA CHIUSURA DI OGNI ARTICOLO DI SAVIANO.
la definizione di Leonardo Sciascia ("professionisti dell'antimafia") gli valse molte e accese critiche, addirittura qualche sospetto di "intelligenza con il nemico", come si sarebbe detto in tempo di guerra. Poi però Sciascia chiarì il suo pensiero per chi non voleva - o non poteva - comprenderlo: da intellettuale qual era spiegò che il motivo di perplessità non era, naturalmente, il contenuto delle parole, ma il loro effetto: dalla condivisione delle idee si rischia di passare all'esaltazione di chi le comunica. E le esaltazioni sono sempre pericolose. Anzitutto perché divaricano il significato dal significante dove quest'ultimo si trasforma da "combattiamo la mafia" in "adoriamo chi la combatte". Come dovrebbe essere ovvio, non è la stessa cosa. E chi incita, sia pure indirettamente, a questa "sacralità del santone" perde progressivamente di vista l'importanza dell'idea sostituendo l'oggetto della storia con il soggetto narrante. Proprio come quando la politica parla di odio e amore invee che di amministrazione e scelte. All'inizio sembra che tutto funzioni: adorare il Faraone dà la sensazione che tutto sia garantito attraverso di lui. Poi però il Faraone ci prende gusto. Nell'antica Grecia accadde con Pericle. A suo modo, anche lui era un fautore del presidenzialismo. Anche lui, per superare la crisi economica, puntò sulla spesa pubblica e coltivò l'amore del suo popolo. Ma l'età di Pericle da età dell'oro si trasformò in disastro della Repubblica.
L'ANONIMO DELLE 12,23 AVREBBE POTUTO METTERE NOME E COGNOME IN CALCE, AVREBBE DATO PIU' PESO AL SUO COMMENTO, CHE A ME E' PIACIUTO.
vero! noi... "anonimi" siamo talmente poco inclini a diventare santoni, con tanto di agente letterario e prezzo di copertina, che spesso dimentichiamo anche di firmare: Roberto Ormanni
BELLA AUTOIRONIA LA TUA ROBERTO!
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