di Gianfranco Pasquino
Le vicissitudini più recenti, ma destinate a durare, del Partito Democratico riguardano due problemi irrisolti: la struttura del partito e le riforme istituzionali, che nessun leader ha il coraggio e la cultura politica per affrontare e risolvere. All’uscita estemporanea di Romano Prodi che vorrebbe ristrutturare il Pd in forma del tutto oligarchica intorno a venti segretari regionali che incoronano e ingabbiano il segretario nazionale (oggi, per altro, già sostenuto da diciannove di quei venti segretari), si sarebbero potute dare risposte meno balbettanti.
La prima, semplice, che Prodi non ha la minima idea di che cosa sia un partito, tantomeno un partito federalista.
La seconda che Prodi ha perso almeno tre treni per costruire il “partito che vogliamo”: nel 1996, quando si rifiutò di dare seguito organizzativo e politico ai Comitati “per l’Italia che vogliamo”; la seconda nel 2005 quando dopo le sue primarie lasciò cadere l’idea di fare di quegli elettori primaristi un nucleo, enorme e possente di un nuovo partito; la terza nel 2007 quando non prese la guida politica del Partito Democratico lasciando a Veltroni compiti organizzativi e finì travolto dall’affabulazione (di Veltroni).
Purtroppo, dopo l’affabulazione di Veltroni è venuta la narrazione di Bersani (“dare un senso a questa storia”), ma dell’organizzazione non si parla mai, non si fa nulla, la si lascia in mano ai carrieristi locali che, chiusi nei loro bunker, spiegano il successo della Lega con il suo radicamento e il suo stare fra la gente, ma, loro, si sono radicati negli organi dirigenti e fra la gente non ci vogliono proprio andare. Anche perché non saprebbero che cosa raccontare.
Allora, meglio sarebbe se Bersani decidesse che qualsiasi reclutamento per qualsiasi carica elettiva deve avere come precondizione la prova di avere praticato una qualche attività professionale e passasse per tutte le cariche monocratiche (oltre che per i parlamentari) attraverso primarie accuratamente regolamentate, quelle attuali essendo spesso regolamentate cervelloticamente, e, in qualche caso, ad esempio, Bologna anche manipolate.
Un partito dei candidati, non paracadutati, e degli eletti, sarebbe sicuramente più presente sul territorio, più dinamico, più flessibile. Quasi trentacinque anni di dibattiti sulle riforme istituzionali non hanno fatto crescere praticamente niente nella cultura politica degli ex-democristiani e degli ex-comunisti, oggi insieme nel Partito Democratico.
Molti di loro sono diffidenti, anche perché, forse, non abbastanza preparati (si noti quanto dolce è il mio eufemismo).
Molti pensano che il problema è, naturalmente, un altro. Quand’anche avessero ragione, ma hanno torto, quando la minestra che verrà servita dalla maggioranza governativa sarà quelle delle riforme istituzionali vagamente presidenzialiste in brodo all’italiana, bisognerà mangiarla o saltare dalla finestra. Ma sarebbe meglio dimostrare di avere una minestra migliore per gli italiani.
Le riforme della maggioranza saranno ovviamente tagliate su misura per il mantenimento e, se possibile, per l’ampliamento del loro potere politico da esercitare anche sui magistrati.
Quelle del Partito Democratico non possono essere improntate dallo slogan, apparentemente unificante, “Salviamo la Costituzione”, che fa breccia in una minoranza, e magari, ma questa volta sara’ piu’ difficile, sconfiggera’ le riforme con il referendum costituzionale.
Il PD, notoriamente grande partito nazionale, dovrebbe avere una visione e un progetto di ammodernamento di quella che Napolitano ha definito “una splendida sessantenne”, la nostra Costituzione. Invece, condannandosi all’impotenza, ma, soprattutto, nonostante le molte scuole di politica che ha attivato nel paese, il Partito Democratico va in ordine sparso proponendo modelli, che poi annacqua, con facilmente percebili obiettivi politici. L’esempio più clamoroso è quello di D’Alema che desidera il modell Deutschland (utilizzo l’espressione con la quale nel Sessantotto la sinistra italiana deprecava la Germania tutta), non perché buono in se’, oggettivamente lo è, non perché migliorerebbe il sistema politico italiano, certamente, se preso in blocco, sarebbe un netto passo avanti, ma perché consentirebbe di fare l’alleanza con Casini, un obiettivo non proprio entusiasmante.
Attenzione, l’alleanza non potrebbe essere con Fini fintantoché il Presidente della Camera rimane attestato sul semipresidenzialismo francese con sistema elettorale a doppio turno, anch’esso un buon sistema che consentirebbe di sfidare Berlusconi e Bossi sulla necessità di riforme sistemiche.
Per incidere in un dibattito che rischia di precipitare isolando il PD, come successe con quello che porto’ alla pessima riforma elettorale del Porcellum (sulla quale i DS e la Margherita, Prodi e i prodiani non ingaggiarono una battaglia all’ultimo sangue), bisognerebbe avere un’idea costituzionale e un progetto politico condivisi, dentro il partito. Poi, impegnarsi in una operazione di grande respiro culturale che consentirebbe di raggiungere milioni di elettori spiegando che le riforme costituzionali servono a migliorare il funzionamento del sistema e, quindi, anche a ridurre il peso della classe politica e il costo delle sue lentezze decisionali, ma anche, a determinate condizioni, a ricreare un sentimento di appartenenza collettiva. Le politiche per il lavoro e per il fisco seguiranno.
Quello che, invece, è probabile che arrivi molto presto èil progetto presidenzialista e federalista, senza toccare l’attuale legge elettorale, che serve a Berlusconi e a Bossi, ma anche a D’Alema, Bersani e Franceschini, per nominare i “loro” parlamentari. Diviso in “sensibilita’” di modesta cultura politica, unito nella difesa delle cariche dei suoi dirigenti, giù “per li rami” fino al più piccolo dei comuni, chiuso alle richieste di rinnovamento, che non è solo generazionale, il Partito Democratico continuerà, disorganizzato, a balbettare.
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