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Sono ormai abituato a pensarla come la mia stanza.
Qui ci vivo, ci mangio, ci dormo.
Penso alla mia vita, soprattutto di notte, quando tutto è silenzio, a parte qualche verso prodotto dai miei compagni di camera.
Sì, perché qui dentro siamo in cinque: Oman, Kabù, Mariolino, Felice e io, Arnaldo.
Di notte si fa fatica a prendere sonno, forse perché non ho un lavoro abbastanza faticoso; forse perché il buio pare un liquido che colma gli angoli. Assoluto e denso, che di tanto in tanto viene interrotto dalla luce di un faro.
Davanti agli occhi chiusi continui a vedere l’alternanza di giorno e notte e, non riuscendo a dormire, pensi. E a cosa puoi pensare chiuso in questa stanza? Alla tua vita, ai tuoi cari: a mio figlio che a casa starà dormendo abbracciato al suo peluche preferito. A mia moglie e al suo profumo che mi mancano tanto, entrambi in eguale misura.
Quando il faro scandaglia la notte facendola fuggire via per pochi secondi, con quell’urlo da donzelletta spaurita, non posso fare a meno di vedere questa stanza per ciò che è: una cella. E io, un detenuto, così come i miei compagni di camera.
I nostri incubi, i nostri sogni, è come se creassero una cappa ancora più oscura, che si leva a mezz’aria sopra le nostre teste.
Quando smetto di pensare alla mia famiglia, al mio errore e osservo le sagome raggomitolate degli altri, tranne quella di Felice che dorme sempre steso come un fuso, con i piedi che spuntano fuori dalla coperta; allora provo a immaginare come sarebbe avere almeno una cella tutta mia. Una stanza personale, che contenga solo il mio errore.
Con un unico cassettone coi miei vestiti. Con una mensola con solo il mio bicchiere e
le mie cose.
Sarebbe già dimezzare la pena. Avrei più aria da vivere, meno litigi da sopportare. Più spazio vitale per muovermi.
Il mio errore non fa di me una bestia da mantenere in vita, senza dignità, senza una possibilità di redenzione.
A volte ne parliamo io e gli altri, ci sentiamo un po’ come animali sull’arca di Noè, portati via dal diluvio della nostra assurda esistenza, ma messi a navigare su una rotta sbagliata, che non ci condurrà a nessun riscatto.
Arriva l’alba, me ne accorgo sempre per quella luce rosa che si issa sopra al filo spinato. Si arrampica sulle grate e tinteggia per un breve istante anche la mia stanza.
La nostra stanza.
© Miriam Ballerini
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