giovedì 1 luglio 2010

Della privacy e altri demoni


di Vincenzo Marinelli (*)

Berlusconi non ha ancora rinunciato all’idea di ottenere, dalla sua maggioranza bulgara “ad personam”, la legge sulle intercettazioni prima della sospensione estiva dei lavori parlamentari. Meglio agosto che settembre. “Agosto moglie mia non ti conosco”, dice il titolo di un romanzo di Achille Campanile.

Finalità dichiarata della legge che tanto sta a cuore al Cav. è la tutela della privacy. Facciamoci carico di questo argomento e vediamo come stanno davvero le cose.

È indubitabile che la privacy sia un valore riconosciuto dalla Costituzione. L’art. 15 dichiara “inviolabili” “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione”. La tutela della privacy va però coordinata con altri valori costituzionali: la sicurezza dei cittadini, il diritto alla giustizia, la libertà di cronaca e di critica, il diritto di essere informati. Occorre un bilanciamento tra questi valori, trovare un punto di equilibrio che consenta di realizzarli tutti senza sacrificarne nessuno. Come è possibile ciò? Individuando dei limiti, dei giusti limiti. La traccia la dà la stessa Carta fondamentale, che, sempre all’art. 15, stabilisce, per la libertà e segretezza delle comunicazioni, che “la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria e con le garanzie stabilite dalla legge”.

Ci sono, per dirla con un minimo di tecnicismo, una riserva di legge e una riserva di atto giurisdizionale. Non basta una semplice misura di polizia, occorrono una legge generale e, in rapporto ad essa, un atto motivato della magistratura. Se esaminiamo, alla luce di questi principi, i contenuti della legge sulle intercettazioni, possiamo renderci conto chiaramente che lo scopo dichiarato non corrisponde affatto agli scopi reali. Non si mira a svolgere il dettato costituzionale. Non ci si propone, ad esempio, di definire i requisiti di una rigorosa motivazione dell'atto giudiziario in relazione a specifiche esigenze di indagine.

Si punta invece, prendendo a pretesto la privacy, a stabilire dei pesantissimi limiti al potere-dovere della magistratura di fare indagini su fatti di rilievo penale. Tra l’altro s’introduce un limite temporale iugulatorio per poter disporre le intercettazioni, studiato appositamente perché, nella nota situazione di sovraccarico del servizio giustizia, non si sia in grado di rispettare il termine. Non meno vessatori sono i limiti posti per l’informazione attraverso la stampa, la radio, la televisione e, ultima ma non ultima, Internet. Imbavagliati i giornalisti, tenuti all’oscuro i cittadini.

Quello che interessa davvero non è garantire armonia nella realizzazione dei valori costituzionali, ma tenere la cricca al riparo dalle indagini dei magistrati e dai riflettori della stampa. Si vuol realizzare quello che, riprendendo un’impagabile espressione del non compianto ministro Scajola, si potrebbe definire il regime dell’“insaputa”.

In sostanza la legge in discussione vuole evitare: primo, che si facciano intercettazioni imbarazzanti per chi detiene un potere politico di tipo malavitoso; secondo, che si vengano a sapere i contenuti (anche quelli penalmente rilevanti) di tali intercettazioni, pur quando vengono resi noti alle parti e ai difensori.

Date le sue peculiari caratteristiche, quella che viene comunemente chiamata “legge bavaglio” si può più congruamente denominare, per renderle piena giustizia, “legge guinzaglio-bavaglio”. Guinzaglio per i magistrati, bavaglio per la stampa.

Si vorrebbe far credere che sia mancata, finora, una tutela della privacy. È un falso clamoroso. In tutta Italia si fanno ogni giorno processi civili e penali per diffamazione a mezzo stampa, che riguardano appunto il diritto alla privacy. Viene cioè in discussione il limite entro cui il diritto di cronaca e di critica giornalistica possono essere legittimamente esercitati e oltre il quale violano invece la privacy, l’onore e il decoro della persona.

La legge sulle intercettazioni non è commisurata a reprimere gli abusi, cioè ad impedire una diffusione di notizie che, in mancanza di un apprezzabile interesse pubblico alla loro conoscenza, dia luogo a violazione della riservatezza della vita privata. Si rivela invece finalizzata a ben altro. In cosa consiste, alla luce dei principi giurisprudenziali, la differenza tra privacy e interesse pubblico alla notizia? Vediamo di chiarirlo con un esempio. Un esempio, diciamo, di pura fantasia, senza riferimento a fatti e persone reali, come si scriveva una volta nei titoli di testa o di coda dei film. Andando su Internet si potrebbero però forse trovare delle corrispondenze, chissà. Supponiamo che il signor B. si faccia praticare dalla signora C. una fellatio o, volendo sdoganare un termine un po’ brutale, ma che rende bene l’idea, si faccia fare un pompino. Se la cosa resta nella camera (con la c minuscola), è privacy. Ma se poi la signora, in grazia di questo tipo di prestazioni, è investita di una carica pubblica, diventa, che so io, deputato o ministro, non è più privacy. In altri termini: nella prima ipotesi sono casi suoi, del signor B; nella seconda ipotesi sono casi del popolo.

È vero che la parola “mignotta” deriva dal latino (mater ignota), ma è bene che il popolo sovrano la capisca in italiano.

(*) sostituto procuratore generale della Repubblica presso la Procura Generale della Corte di Cassazione

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