

di Maurizio Chierici
È finita la lunga solitudine di Eleonora Moro. I vecchi politici ne parlavano malvolentieri; il consiglio comunale di Maglie le dedicherà un minuto di silenzio. Un minuto. Maglie è la città dove la signora era nata e dove ha conosciuto il ragazzo lungo e taciturno che studiava da avvocato. Di Aldo Moro è rimasto lo strano monumento nell’aiuola di una piazza, L’Unità che spunta dalla giacca forse a ricordare la temerarietà del politico “troppo aperto verso i comunisti”.
Era l’inquietudine del segretario di Stato Kissinger il quale lo ha minacciato con parole non sfumate. “O smette di corteggiarli o la pagherà cara”. E il capo del governo di un paese sovrano era tornato a casa sconvolto. Si era sentito male. “Cosa voleva davvero dire ?”, ripeteva alla moglie.
La signora lo ha ricordato alla commissione parlamentare che indagava sul delitto, ma Cossiga e Andreotti hanno minimizzato: deve aver frainteso.
Era una donna esigente, forte, schiva, ripete Rosy Bindi, vita appartata nei giorni di gloria e nei giorni di un dolore lungo 32 anni. Non ha mai smesso di voler sapere cosa davvero era successo, chi non aveva voluto salvarlo dall’incubo della prigionia, ma le risposte restavano vaghe, indagini deviate, silenzi incomprensibili ai quali non si era mai rassegnata.
Ne conservo un ricordo lontano. Settembre di tramontana, 1968, passando da Rodi Garganico sfioro uno slargo dove un signore su una piccolissima pedana intrattiene poche persone con la modestia di un politico di provincia. Non è proprio un comizio, ma un “discorso tra amici”, ripeteva con voce sottile. Aldo Moro si preparava al congresso d’autunno della Democrazia cristiana profugo da elezioni non proprio felici.
Era stato il primo presidente a resistere a Palazzo Chigi per più di 800 giorni rompendo la tradizione dei governi repubblicani dal fiato corto. Non era stato riconfermato dalle correnti Dc in subbuglio: il governo balneare di Giovanni Leone stava riportando il paese ad una “conduzione più ragionevole “. Nella sua Puglia l’avversario dalle vele aperte si chiamava Vito Lattanzio, uomo dei poteri locali.
Finito l’incontro, Moro si incammina verso un’automobile chiara, al volante la signora con alle spalle la vettura di due annoiate guardie di protezione. “È lei l’autista del presidente?”. “E chi dovrebbe essere?”, alza il finestrino e porta via il marito brontolando per l’impertinenza della domanda.
Non si è mai mostrata nelle settimane della prigionia. Non ha voluto i funerali di Stato per non incontrare “chi l’aveva lasciato morire perché troppo scomodo. Stava dalla parte della giustizia e della verità, testimone di storie segrete che facevano tremare chi aveva rubato, chi aveva imbrogliato, chi aveva messo nei guai la famiglia. La sua memoria era un pericolo insopportabile e doveva sparire”.
Al giudice Ferdinando Imposimato confessa il disagio di una credente: non se la sente di stringere la mano alle persone che misuravano la loro ignavia sulla lealtà del marito. “Sono cattolica, non una santa. Nel profondo posso perdonare ma non far finta di niente”.
Risponde alla commissione parlamentare ma fa anche domande: si sapeva da giorni qual era la tipografia delle Br: perché non è stata perquisita?
Perché i documenti trovati in via Gradoli non sono stati subito esaminati per capire quale era la trama, ma impacchettati e dimenticati per un tempo insopportabile?
Perché si è impedito a Giovanni Pellegrino, presidente Commissione stragi di interrogare da Hammamet Bettino Craxi, amico del generale Dalla Chiesa: cosa sapeva del rapimento e delle trattative per liberare il prigioniero?
Nessuno voleva tornasse a casa... Trent’anni così con attorno figli e nipoti, ma non bastavano. Aveva smesso di rileggere le lettere del marito: “Troppo tristi, non ce la faccio più“. Adesso i funerali di famiglia. Gli altri sempre lontani: non li voleva e loro ben contenti di stare alla larga.
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