

L’invito dell’assessore alla Cultura della Provincia di Palermo a proposito del senatore Pdl fa riflettere sul continuo mescolare le carte sulle vicende di mafia
di Evelina Santangelo
“Chiedete scusa a Marcello dell’Utri”. In questi termini si è pronunciato qualche giorno fa l’assessore alla Cultura della Provincia di Palermo contro la presa di distanza da Marcello Dell’Utri dei ragazzi di Giovane Italia Palermo, invitandoli al “silenzio e alla crescita”, incurante delle accuse passate e presenti. D’altro canto, lo stesso senatore Dell’Utri non vede alcuna contraddizione nel rispondere proprio ai giovani del Pdl: “Borsellino e Falcone sono eroi, ma Mangano è un eroe per me”. Pure il senatore Cuffaro, d’altronde, fece tappezzare
Discontinuità culturale
“ACCANTO ai giudizi dei giudici – diceva Paolo Borsellino – esistono anche i giudizi politici. Le conseguenze che dinanzi a certi fatti accertati trae o dovrebbe trarre il mondo politico”. E Falcone, dal canto suo, non smise mai di ritenere la discontinuità culturale e morale come l’unica via praticabile per sradicare (e non solo combattere) la mafia dalla società. Una lezione che sin dalla metà degli anni’80havistomolteassociazioni e scuole siciliane impegnarsi più che mai sul fronte dell’educazione alla legalità, che in Sicilia significa soprattutto “educazione a una cultura antimafiosa”. E questo perché, da allora, è risultato sempre più evidente come la mafia, il patto criminale stretto con una fetta del mondo politico e imprenditoriale, i morti che ha seminato, la sub-cultura che ha alimentato, gli abusi che ha perpetrato in decenni di controllo e stupro edilizio del territorio siciliano abbiano spesso dettato non solo l’agenda delle priorità, in Sicilia, ma anche logiche di convivenza, comportamenti , paure, e persino il modo di abitare una città come Palermo, di percorrerla... al punto che c’è persino un fondo di verità nella battuta paradossale del film Johnny Stecchino sul “traffico”a Palermo: anche il “traffico tentacolare” del capoluogo siciliano è frutto del “sacco di Palermo”, della volontà e degli interessi mafiosi diventati legge grazie alle connivenze politiche. C’è però qualcosa di ancora più insospettato su cui lo strapotere mafioso ha esercitato il suo condizionamento: cioè, i modi stessi in cui si è stati costretti spesso a rivendicare diritti e identità, sempre e prima di tutto in contrapposizione nei confronti di quanto la mafia ha inoculato, in modo materiale e immateriale, nel tessuto di questa terra e della sua gente, almeno per chi è cresciuto credendo nel dovere civile di contrastarla, la sub-cultura mafiosa, piuttosto che “conviverci” o farci affari. Così è accaduto qualcosa di paradossale. La mafia, più o meno indirettamente ha finito per orientare anche il sentimento lacerato che molti di noi siciliani nutriamo nei confronti della nostra terra e di noi stessi, costringendoci, di fatto, a definirci in primis per negazione a dichiarare prima di ogni altra cosa insomma, “ciò che non siamo e ciò che non vogliamo” (a volte un vero e proprio imperativo interiore, ma a volte anche una condanna dello spirito), nel tentativo, se non altro, di disinnescare la forza distruttiva che la sub-cultura mafiosa esercita nei confronti della nostra identità. Un modo drammatico, a ben guardare, di pensare il proprio senso di appartenenza a una terra, drammatico e sempre più assediato dalla spregiudicatezza con cui da tempo sono state rimescolate le carte; “le carte” che ricostruiscono la stagione delle stragi, “le carte” che segnano la nascita della Seconda Repubblica, “le carte” che dettano equilibri economici, politici, istituzionali, le “carte” dei principi che sanciscono la convivenza civile nel nostro Paese. Eppure, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, in Sicilia era accaduto qualcosa di impensabile: si era nutrita l’illusione che esistesse davvero un fronte civile solido su cui costruire un’identità in positivo: “La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”, diceva Giovanni Falcone. E dire “fine” in una terra dove la non-speranza è stata sempre la maggiore azionista della mafia significava infondere il senso che era possibile prendere in mano il proprio destino e compiere scelte a partire da ciò che si voleva, ciò che si era, e che si poteva essere. È anche questa ridefinizione del senso stesso della propria identità che le bombe di Capaci e via D’Amelio hanno cercato di travolgere, uccidendo due giudici divenuti simboli, certo, non tanto di eroismo (se c’è un tratto che accomuna tutti coloro che hanno lottato sul campo la mafia in Sicilia è proprio l’antieroismo), ma di un modo “civile” di intendere le istituzioni e lo status stesso di cittadino in un paese civile. “Basta che ognuno faccia il proprio dovere”, ripeteva Falcone.
L’allarme settentrionale
EPPURE basterebbe anche solo leggere il dettato dell’emendamento del senatore Azzollini inserito tra le pieghe dell’ultima Finanziaria come se nulla fosse (la licenza di stato all’abusivismo più selvaggio) per intuire che il “sacco d’Italia”, come allora “il sacco di Palermo” (assieme a tutto il corollario di connivenze, condiscendenze o silenzi complici) stia oggi nell’ordine delle cose possibili, anzi, autorizzabili, se non auspicabili. “C’è un allarme settentrionale, rendiamocene conto”, scriveva su questo stesso quotidiano qualche giorno fa Nando Dalla Chiesa. Ecco, orse anche il nord, come il sud, come il centro, dovrebbe oggi passare da quel calvario lì che molti siciliani conoscono benissimo, dichiarando senza equivoci: “Ciò che non siamo e ciò che non vogliamo”, nel tentativo di riprendere quel discorso civile che, in Sicilia, le stragi e le esecuzioni del ’92 e ’93 hanno spezzato drammaticamente, ma non liquidato del tutto, se fa ancora paura a qualcuno l’idea che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si possano confondere tra i passanti nel centro di Palermo in una rappresentazione ideale della più profonda eredità lasciata a questa terra dai due giudici: la lotta alla sub-cultura mafiosa non è gesto eccezionale di esistenze eccezionali, ma comportamento ordinario che, ogni giorno, chiama in causa tutti in gesti individuali e collettivi di corresponsabilità.
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