mercoledì 7 luglio 2010

PER FINI NIENTE BAVAGLIO


Il presidente della Camera: “In un Paese democratico la libertà di stampa non è mai sufficiente”

di Carlo Tecce

Poche mani ormai reggono il bavaglio chiamato legge sulle intercettazioni. Gianfranco Fini rimuove le sue impronte, ancora una volta: “In un grande Paese democratico la libertà di stampa non è mai sufficiente, deve essere forte e autorevole. Noi abbiamo bisogno di introdurre nell’ordinamento ulteriori norme che tutelino l’accesso ai mezzi di informazione”. E la relazione annuale dell'Autorità di garanzia, nella sala della Lupa di Montecitorio, sembra l'ennesimo ritrovo di nemici al disegno di legge. Corrado Calabrò è l'ultima leva, arruolato volontario a un giorno dallo sciopero dei giornali: “La libertà d’informazione non si tocca, forse va tutelata più delle altre libertà indicate nella Costituzione”. Nel discorso di Calabrò la parola libertà viene citata più di statistiche e percentuali riassunte nel librone dell'Agcom: “Per il Trattato di Lisbona il pluralismo dell'informazione è un principio fondante dell'Unione europea. Un parametro di legittimità – aggiunge il Garante – da valutare con attenzione per qualunque intervento nazionale in materia, compreso le intercettazioni”.

Un attento osservatore l'avrebbe definita la coppia ben assortita, diversi eppure in sintonia, Fini e Calabrò giocano insieme contro il bavaglio. Il presidente della Camera difende i giornali, non dimentica le critiche brasiliane di Berlusconi: “Occorre sconfiggere la vulgata: la carta non è il passato dell’informazione. Senza la stampa sarebbe poca cosa anche l’informazione che viaggia sulla Rete. Al contrario, sarà proprio dall’interazione virtuosa tra l’informazione su stampa e Internet che potranno derivare i frutti migliori degli anni a venire. Internet è il futuro. Ma non abbiamo bisogno di tagli drastici all’editoria, semmai di una selezione di strumenti più appropriati per il sostegno pubblico e bandire ogni forma di intervento clientelare”.

L'acronimo Agcom rimanda all'inchiesta di Trani: le telefonate per bloccare Annozero, le dimissioni di Giancarlo Innocenzi, il rapporto tra la Rai e il capo del governo. Calabrò riaccende l'orgoglio dell'Autorità: “Nessun atto istituzionale, nessuna decisione collegiale ha risentito delle pressioni e insistenze che sarebbero state esercitate, da qualsiasi parte”. E così propone una riforma del servizio pubblico, una revisione della par condicio per evitare sfasature con la concorrenza privata, una vera lotta all'evasione del canone, nuovi sforzi per la banda larga e di anticipare la copertura digitale di un anno (2011): “La Rai non possiede risorse sufficienti per migliorare la rete trasmissiva, per investire nell’alta definizione e nella televisione su Internet. Deve liberare la sua anima imprenditoriale e svincolarsi dai partiti”.

Il presidente Paolo Garimberti e Sergio Zavoli sottoscrivono l’appello di Calabrò. Oltre viale Mazzini c'è il Biscione. Il digitale terrestre potrebbe aiutare a risolvere – in assenza di leggi – il trentennale paradosso di una televisione pubblica stretta tra Parlamento e Cda e il monopolio privato di Mediaset.

Fini rinuncia a una bacchettata sul passato? Giammai: “La svolta televisiva è un’occasione da non perdere per recuperare alcuni decenni di gestione disordinata dell’etere. Dobbiamo garantire gli operatori esistenti e i nuovi secondo un modello di pluralismo e pari opportunità”.

Fabrizio Cicchitto pesa il valore politico del discorso di Fini e corre per ammonirlo: “Il garantismo nasce da un uso politico della legge da parte della magistratura e di un sistema di illegalità e di violazione del diritto, a cominciare dalla tutela della libertà della persona: chi non condivide questo – conclude il capogruppo alla Camera – non capisco su che basi abbia aderito al Pdl”. C'è tempo per un battibecco a distanza. Calabrò è preoccupato: “Con il tasso attuale di diffusione degli smartphone, la nostra rete mobile potrebbe collassare”. E Franco Bernabè (Telecom) rassicura: “Non c'è rischio per l’Italia”.

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