lunedì 2 agosto 2010

Il federalismo è la vera posta in gioco


LUCA RICOLFI

E’ il federalismo la vera posta in gioco.

E adesso? Nessuno oggi è in grado di prevedere quali conseguenze avrà la rottura del rapporto fra Berlusconi e Fini. Alcuni pensano che alla fine Berlusconi riuscirà a racimolare i voti necessari per governare, un po’ attingendo al centro, fra i parlamentari legati a Casini e Rutelli, un po’ recuperando qualche finiano indeciso. Altri pensano che Berlusconi non ce la farà, e torneremo alle urne abbastanza presto, forse già in autunno o al più tardi in primavera (durante i festeggiamenti dell’Unità d’Italia?!). Altri ancora pensano che Berlusconi abbia rotto con Fini proprio per tornare alle urne, e che i voti di deputati e senatori fingerà di cercarli, ma in realtà sarà ben contento - alla prima occasione - di cadere per colpa del «traditore» Fini.

Personalmente trovo che quest’ultima lettura sia più plausibile delle altre, per almeno tre motivi. Il primo è che se si votasse nel 2013 Berlusconi affronterebbe la campagna elettorale in condizioni peggiori di quelle attuali. In assenza di risultati tangibili, il consenso per il governo è destinato a declinare da qui al 2012, secondo una parabola ben nota agli studiosi del ciclo elettorale. E poiché è molto difficile che tali risultati possano essere ottenuti in appena due anni, con una maggioranza parlamentare risicata, e con l’economia che non consente né la riduzione delle tasse né un avvio dolce del federalismo, è ragionevole pensare che il tempo giochi contro Berlusconi, e che Berlusconi voglia perciò «fermare il tempo» della legislatura tornando al voto.

Si potrebbe obiettare che votando a metà legislatura Berlusconi sancirebbe il fallimento della sua esperienza di governo, come abbiamo sentito ripetere più volte nell’ultimo anno. Qui però entra in campo un secondo motivo di accelerazione: Fini fino a ieri era una spina nel fianco ma, se il governo dovesse cadere per il «tradimento» dei finiani, potrebbe trasformarsi in un utilissimo capro espiatorio. Berlusconi direbbe di avere fatto molto, e che tutto quel che non è riuscito a fare è per colpa dell’alleato infedele, che non ha perso occasione per metterlo in difficoltà. Insomma, Berlusconi potrebbe rivolgersi al corpo elettorale chiedendo di restituirgli i voti che i finiani traditori gli hanno proditoriamente sottratto.

Una strategia comunicativa del genere può sembrare rozza e infantile, ma lo è solo fino a un certo punto. La posizione di Fini, e questo è il terzo motivo che spinge alle urne, è ragionevole di fronte agli elettori moderati e a quelli progressisti, ma non lo è affatto fra i sostenitori del governo. Le ragioni di Fini, infatti, o riguardano cose che avrebbe dovuto sapere al momento di cofondare il Pdl insieme a Berlusconi, o riguardano questioni su cui Fini e i finiani avevano già vinto e stravinto. Fra le prime - le cose risapute - rientrano la concezione berlusconiana della democrazia, l’ostilità nei confronti della magistratura, la leggerezza nell’imbarcare inquisiti, rinviati a giudizio e condannati: possibile che Fini e i suoi le abbiano scoperte solo ora?

Fra le seconde - le questioni politiche - rientrano innanzitutto la legge sulle intercettazioni e il federalismo. Ebbene Fini e i suoi avevano vinto su entrambe, almeno stando al programma di governo sottoscritto all’inizio del 2008, in vista delle elezioni politiche. Basta rileggerselo, quel programma articolato in sette missioni, per scoprire che su entrambi i terreni - intercettazioni e federalismo - il programma è stato effettivamente tradito, ma andando nella direzione auspicata da Fini, non certo in quella auspicata da Berlusconi. La legge sulle intercettazioni delineata nel programma del centro-destra (missione 3) era molto più berlusconiana di quella poi uscita dalla commissione Giustizia, massacrata dagli emendamenti dei finiani e dell’opposizione (e infatti uno sconfortato Berlusconi aveva confessato la tentazione di ritirare il disegno di legge). Quanto al federalismo (missione 6), il programma del Popolo della libertà prevedeva di recepire la severa proposta di legge della Lombardia, mentre la legge poi effettivamente varata dal governo era molto più morbida proprio in quanto recepiva, di nuovo, le osservazioni dei finiani e dell’opposizione. In breve a me pare che, nel merito delle questioni che solleva, Fini possa avere tutte le ragioni di questo mondo, ma nel metodo seguito - fare il presidente della Camera e nello stesso tempo prendere sistematicamente le distanze dal governo - sia facilmente attaccabile di fronte al «popolo» di centrodestra.

Che a Berlusconi possa convenire andare al più presto al voto, naturalmente, non implica che le cose andranno effettivamente così. La partita vera, infatti, non si gioca certo sulla questione morale, sulla legge elettorale, sulle regole della democrazia, sulla riforma della giustizia, sulle intercettazioni. La partita vera si gioca sulla posta fondamentale della legislatura, ossia sul destino del federalismo. E sul federalismo gli attori in campo non sono solo Fini e Berlusconi, ma anche Bossi e Bersani.

Per Bossi andare al voto senza aver incassato i decreti delegati sul federalismo (il cui termine di emanazione ultimo è il 5 maggio 2011) sarebbe un rischio molto grave: potrebbe suonare come l’ennesimo insuccesso, o se preferite come l’ennesima vittoria di Pirro. Nel 2005 la Lega aveva ottenuto la devolution, poi cancellata dalla vittoria del centro-sinistra e dal referendum del 2006. Oggi la storia potrebbe ripetersi con la «legge Calderoli», approvata nel maggio del 2008 ma tuttora priva dei principali decreti attuativi. Se si tornasse a votare subito, il partito di Bossi sarebbe costretto a presentarsi senza il trofeo del federalismo fiscale, ma se si votasse fra un anno o due il rischio potrebbe essere persino maggiore: il federalismo non può dare grandi benefici subito, e più si avvicina la fine della legislatura più gli elettori pretendono di vedere fatti concreti.

Per Bersani e il Pd le scelte sono ancora più difficili. La tentazione di far cadere il governo è molto forte, ma - soprattutto nelle regioni settentrionali - altrettanto forte è il timore di affossare il federalismo, una riforma su cui molti nel Pd hanno puntato. Se il Pd vuole la caduta del governo non può che cercare un asse con i finiani e i centristi di Casini e Rutelli, forze politiche notoriamente ostili o critiche verso il federalismo. Ma se da tale asse dovesse nascere un’alleanza politica, il baricentro di questo vasto schieramento «moderato» non potrebbe che essere il Mezzogiorno, un’arena in cui da tempo si esercitano movimenti e forze politiche che, sia pure con accenti diversi, vagheggiano la nascita di un «partito del Sud». Se il Pd si ponesse alla testa di un tale schieramento, potrebbe (forse) vincere le elezioni, ma il prezzo sarebbe la morte del federalismo e la propria cancellazione dal Nord.

Così, al di là dell’euforia per la possibile caduta di Berlusconi, il futuro del Pd appare quanto mai incerto. Se non vuole sparire dal Nord deve tornare a guardare verso la Lega ma, se la Lega continua a puntare su Berlusconi, per il partito di Bersani sarà difficile evitare l’abbraccio con il nascente (e antifederalista) partito del Sud.

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