sabato 21 agosto 2010

La politica dell’insulto


In un famoso film, in cui interpretava il ruolo di Giovanna d’Arco, un’incantevole Ingrid Bergman diceva a un capitano francese, rude soldataccio valoroso dal linguaggio colorito e sboccato, specie in battaglia: «Se proprio non potete farne a meno, capitano, dite "per le mie staffe"». Oggi difficilmente potrebbe rivolgere lo stesso invito a quei rappresentanti del popolo italiano il cui banale turpiloquio sta trasformando il mondo cosiddetto politico non in una caserma, ambiente ruvido ma dignitoso, bensì piuttosto in uno studio di registrazione di quei rumori che Dante, nell’Inferno, fa emettere a qualcuno dei suoi diavoli. Gli avversari che si scambiano laide contumelie non assomigliano a robusti ancorché rozzi uomini d’arme, ma piuttosto agli anonimi autori di sconci disegni sui muri. Qualcuno — l’onorevole Stracquadanio—auspica di adottare nei confronti degli avversari «il metodo Boffo», che disonora chi se ne serve, e si potrebbero citare molti analoghi esempi.

Anche le cosiddette parolacce fanno parte del linguaggio e dell’essere umano e talvolta si può e si deve usarle, come Dante insegna. C’è uno sdegno, un disprezzo e un coraggio che, in certe circostanze e soprattutto dinanzi al pericolo o a un’infamia intollerabile, le nobilita e le rende necessarie. Altrimenti esse sono soltanto eruttazioni ed è improbabile che un’eruttazione costituisca un ragionamento politico. C’è un’abissale differenza tra la parola «merda» che Cambronne — secondo una tradizione forse leggendaria— grida in risposta all’invito degli inglesi ad arrendersi, quando la sera scende sulla disfatta napoleonica a Waterloo, e la stessa parola «merda » che la signora Daniela Santanchè ha usato riferendosi all’onorevole Fini, presidente della Camera. Difficilmente Victor Hugo potrebbe scorgere qualcosa di alto e di sublime in questo termine adottato dalla signora, che egli celebrava invece nella parola di Cambronne.

Volgarità e sconcezze, in questi giorni, arrivano da tutte le parti e da persone che si credono élite, classe dirigente, leader e maestri nell’arte della politica. Nei confronti delle donne le scemenze ingiuriose si scatenano con particolare indecenza, specie da parte di ex partner, e non valgono certo di più dell’insulto che qualsiasi ubriaco può indirizzare a una signora che in quel momento gli passa accanto; anche fra le donne, peraltro, c’è chi non è da meno nella gara alla scurrilità.

Ci si può chiedere come mai e perché alcune elementari regole del vivere civile sembrano scomparse. Quegli insulti divenuti abituali e assurti a linguaggio della politica sono inaccettabili, ma non solo perché si esprimono con quelle parole grossolane che tutti gli adolescenti hanno adoperato e adoperano e che non sono certo un peccato mortale. La violenza di questa degenerazione dei normali rapporti civili non risiede in una rozza maleducazione, ma nella sostanziale mancanza di rispetto che la genera. Presentarsi a un pranzo in mutande o mettersi le dita nel naso a tavola non è un’offesa alla pudicizia, ma a quel rispetto dell’altro che anche le forme dicono e tutelano.

Il rispetto, insegna Kant, è la premessa di ogni altra virtù, che non può esistere senza di esso, perché il senso della dignità propria e altrui è la base di ogni civiltà, di ogni corretto rapporto fra gli uomini e di ogni buona qualità di vita, propria e altrui. Il rispetto, nei confronti di chiunque, non può venire a mancare mai, nemmeno in circostanze drammatiche. Ci possono essere situazioni — in guerra, o per legittima difesa — in cui può essere tragicamente necessario colpire un uomo; non c’è alcuna situazione in cui sia lecita la mancanza di rispetto, nemmeno nei confronti di un colpevole cui giustamente venga comminata una grave pena.

Chi insulta l’avversario si delegittima; è come fosse politicamente interdetto e si includesse in quelle categorie di soggetti che secondo il vecchio codice cavalleresco non avevano i requisiti per poter essere sfidati a duello. Quegli improperi, pertanto, vanno considerati nulli, fuori gioco. È inutile e forse pure ingiusto prendersela con l’uno o con l’altra turpiloquente, perché ognuno fa quello che può, a seconda dei doni che ha o non ha avuto dal Dna, della famiglia in cui ha avuto la fortuna o la sfortuna di crescere, delle possibilità che ha o non ha avuto di sviluppare liberamente e con signorilità la propria persona o della malasorte che lo ha dotato di un animo gretto e servile. Chi nello scontro politico dice un’oscenità probabilmente non sa dire altro.

Non è uno scandalo che esistano queste volgarità; il grave è che esse non destino scandalo, che i loro autori non paghino dazio per il loro smercio di porcherie. È avvenuto qualcosa, nella nostra società, che ha mutato radicalmente quelle che ritenevamo regole pacificamente e definitivamente acquisite al vivere civile. Certe indecenze dovrebbero venire automaticamente sanzionate; se vengo invitato a casa di qualcuno e mi metto a sputare per terra, parrebbe logico che, quanto meno, non mi si inviti più e si cerchi di tenermi alla larga.

Anche l’ipocrisia, pur spregevole, è pur sempre, com’è stato detto, l’omaggio del vizio alla virtù e indica che una società possiede almeno il senso dei valori o, più semplicemente, di quelle forme che non sono vuota o rigida etichetta, ma espressione di reciproco rispetto. Se cadono queste regole, è come quando una violenta pioggia fa saltare i tombini e la melma delle fognature invade la strada.

Sembra invece che nessun comportamento, nessun insulto rivolto all’avversario politico, nessun gesto o termine disgustoso scandalizzi l’opinione pubblica. È avvenuta una radicale trasformazione che, distruggendo le vecchie classi — la classica borghesia, il classico proletariato — in un processo che per altri aspetti è stato liberatorio, ha distrutto sensibilità, valori, regole che ritenevamo componenti essenziali del patrimonio genetico della nostra società e del nostro Paese.

Marx parlava di «Lumpenproletariat», proletariato intellettualmente pezzente e inconsciamente disponibile a qualsiasi manipolazione politica, contrapponendolo al proletariato politicamente consapevole. Oggi la società è sempre più una pappa gelatinosa, una specie di «Lumpenbürgertum», di borghesia intellettualmente pezzente anche quando è abbastanza pasciuta, che non ha nulla a che vedere con la borghesia classica e non si scandalizza se qualcuno, come l’onorevole Bianconi, offende il presidente della Repubblica (ossia anche se stesso, in quanto il Presidente rappresenta il Paese) o se qualcuno dice di usare il Tricolore per pulirsi il sedere.

È questa trasformazione che ha sconvolto pure la politica, cogliendo di sorpresa chi credeva che certi valori e certe regole fossero alla base del nostro vivere politico e civile e si è trovato spiazzato in un agone in cui quei valori e quelle regole non contano più. In tutto ciò vi è anche un elemento pacchianamente comico, come nei vecchi film che facevano ridere mostrando personaggi che andavano a gambe all’aria, finendo magari in liquami poco appetitosi. Forse oggi solo un artista comico — ad esempio il Benigni di certi inesorabili e umanissimi sketch — può aiutarci, sbeffeggiando questa realtà e permetterci quindi di superarla.

La letteratura avrebbe bisogno di un Gadda, l’unico genio in grado di narrare questo formaggio verminoso, di ritrarre quei visi dei o delle turpiloquenti che spesso, nella smorfia dell’insulto, rischiano di rivalutare le vecchie teorie di Lombroso sulla fisiognomica. A partire da una certa età, dice Camus, ognuno è responsabile della propria faccia ed Enzo Biagi, anni fa, aggiungeva, scrivendo su queste colonne, che alcuni hanno la fortuna di perderla, la propria faccia.

Claudio Magris
20 agosto 2010

3 commenti:

Francy274 ha detto...

Complimenti a Claudio Magris, stupendo articolo. Il rispetto è la virtù mancante da sempre in Italia, doveva per forza peggiorare questo stato di cose. Cita Kant che con la Sua filosofia diffuse il pensiero del rispetto e della diplomazia in tutto il Nord Europa. In Italia questo filosofo non ha molta presa sulle menti perchè agli italiani è sempre piaciuto "dire ciò che pensano" e mai "pensare a ciò che dicono", e chiamano la diplomazia "ipocrisia".. Dubito che ci sarà mai un'inversione di tendenza in un popolo che concepisce la libertà come bene proprio, personale, e quindi indifferente verso chi è seriamente infastidito da scorretti comportamenti e lignuaggio. Inutile ripeterlo che gli italiani siamo famosi per l'individualismo e non per il vivere sociale.
Però mi piace davvero leggere simili articoli, sono una carezza all'anima :)

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

COME DICEVA UN MIO COMANDANTE DI REPARTO, PRIMA DI PARLARE INNESTARE IL CERVELLO!

Davide1976 ha detto...

Stando alla logica di Magris, per me mito, e quindi come tale indiscutibile, assumendomi tutte le responsabilità che la mitizzazione comporta, se qualcuno mi ferisce -anche solo verbalmente- ledendo sensibilmente la mia dignità, io potrei legittimamente sferrargli un pugno in un occhio? No, perché c'è un codice penale; no al contro-insulto perché c'è il rispetto, e ancora no al porgere l'altra guancia perché non son cristiano. Ma che faccio Claudio?