

UGO MAGRI
Nel drammatico vertice notturno, vince la tesi del Senatùr: con il presidente della Camera che rema contro, è impossibile fare le riforme, federalismo addio. Dunque delle due l’una. O Fini si toglie di torno, oppure tanto vale andare alle urne subito, anche a novembre... Siamo dunque a un passo dalla crisi istituzionale.
Il premier, spalleggiato da Bossi, dichiara «incompatibile» con il suo ruolo la terza carica dello Stato. E sollecita a Napolitano un incontro dove gli chiederà un gesto che esula dalle sue prerogative: cacciare il presidente della Camera. Pare che Bossi sia pronto a premere lui stesso il grilletto delle elezioni anticipate.
Potendo, il Cavaliere eviterebbe le urne. I suoi sondaggi riservati sono tutt’altro che esaltanti. E comunque, le poche chances di ripetere il trionfo 2008 sarebbero castigate da un passo falso. Tipo: precipitare il Paese verso elezioni che la gente si spiegherebbe solo come effetto di una faida privata, frutto malato di scontri caratteriali, risultato inevitabile di mosse mal calcolate. «Non è che io abbia paura del voto», è l’argomento speso nella notte dal Cavaliere con Bossi, «ma la rottura definitiva dovrebbe avvenire su questioni che interessano la gente, capaci di coinvolgerla direttamente...».
In assenza di giustificazioni vere, più che una campagna elettorale sarebbe una corsa al massacro. Ecco perché ieri mattina, in gran segreto, due esponenti finiani erano stati ricevuti nella villa di Arcore: il presidente dei senatori Fli, Viespoli, e il coordinatore dei gruppi parlamentari, Moffa. Berlusconi li aveva accolti insieme col sottosegretario Augello («pontiere» tra il premier e i dissidenti). Voleva capire se il suo governo ha ancora uno spiraglio di futuro, oppure la maggioranza è già dissolta, come sostiene Bossi. «Con Fini io, personalmente, non parlerò neanche morto», era stata la premessa del Cavaliere, «provateci voi». Verificate, aveva aggiunto, in che cosa consisterebbero le richieste finiane per stipulare quel patto di legislatura evocato domenica dal presidente della Camera. Lasciando intendere che le avrebbe esaminate con cura, perché non siamo più al brusco «prendere o lasciare» di qualche giorno fa. Se le pretese fossero appena appena ragionevoli, aveva soggiunto, i cinque punti della mozione di fiducia potrebbero essere aggiustati, ritoccati... E’ sottinteso che Moffa e Viespoli si erano mossi da Roma non prima di avere informato Fini. E non c’è bisogno di aggiungere che, di ritorno da Arcore, avevano subito messo al corrente il loro leader. La premessa col Cavaliere era stata, del resto, molto esplicita: «Basta coi tentativi di spaccarci, di dividerci in buoni e cattivi, altrimenti non possiamo metterci nemmeno a sedere».
Insomma, poche ore prima che Bossi gettasse lo spadone sulla bilancia, si consumava l’ultimo disperato tentativo di pace. Che se fosse andato in porto sarebbe stato coronato, nella mente del Cavaliere, da un documento, un preambolo, un incipit (le idee non sono ancora chiarissime) concepito come «Patto di lealtà verso gli elettori». Dunque con l’impegno solenne dei parlamentari finiani a non pugnalare sui provvedimenti chiave il governo e la legislatura. Come
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