sabato 4 settembre 2010

Silvio e il prezzo della pace


UGO MAGRI

Una giornata intera spesa per far pace col Colle, o quantomeno provarci. Il lato positivo è che, tra note comunicati e dichiarazioni-fiume, Berlusconi è riuscito un po’ a distrarsi, ingannando l’attesa di quanto dirà domani sera Fini da Mirabello: nemmeno ha avuto il tempo di metterci la testa, giurano nell’entourage. Per cui niente di nuovo dal fronte interno al Pdl.

L’aspetto negativo, invece, è che per placare le ire quirinalizie Berlusconi si trova adesso a dover sciogliere in sette giorni il nodo (successione di Scajola) fin qui sempre rinviato. Rinviato da lui, non da Napolitano. Al quale invece i «ventriloqui» del Cavaliere rimproverano di aver messo i bastoni tra le ruote, fino al punto di respingere la candidatura di Romani a suo tempo avanzata dal premier. Questa tesi è stata esposta, papale papale, dal deputato Pdl Stracquadanio, con tanto di indice puntato nei confronti del Presidente. Il Quirinale ha preso cappello proprio come accadde due mesi fa per un oscuro parlamentare toscano, Bianconi, perché anzitutto dev’esserci rispetto, la forma diventa sostanza. Telefono rovente con Palazzo Chigi, e nota finale di Berlusconi: falso che Napolitano gli avesse messo un veto, mai era stato fatto il nome di Romani.

In realtà, nemmeno questa versione è esatta al cento per cento. Berlusconi il nome in questione l’aveva sussurrato all’orecchio del Presidente nell’ambito di una verifica riservata preliminare, come sempre si fa in casi del genere. E il Presidente della Repubblica gli aveva mosso certe obiezioni (legate, pare, a un conflitto d’interessi del candidato ministro) su cui il Cavaliere aveva promesso di fornire rapidi chiarimenti. Salvo dileguarsi senza più dare notizie di sé.

La ragione non è affatto un mistero: con la scusa di Napolitano contrario, Berlusconi voleva tenersi libera la poltrona, casomai Casini avesse deciso di tornarsene in maggioranza. Insieme col vitello grasso, per festeggiare il figliol prodigo, Silvio avrebbe sacrificato volentieri la pedina dello Sviluppo. Sennonché, passa un mese passa l’altro, l’intesa con i centristi non matura. Ci si mette di mezzo la Lega, Bossi pone il veto sull’Udc, e nel frattempo monta la pressione per colmare il «vuoto di governo». Basta. Il Cavaliere alza bandiera bianca. Ieri mattina annuncia finalmente la nomina, sperando di normalizzare i rapporti col Colle da lui stesso logorati attraverso battute e giudizi antipatici. Pronunciati tra quattro mura, però puntualmente rimbalzati all’esterno. Napolitano che «mi rema contro», che «non si capisce a che gioco sta giocando», anzi «si comprende benissimo: aiuta Fini». Superlavoro del portavoce Bonaiuti con smentite a raffica, «mai pronunciate né pensate cose del genere», ma inutilmente perché sul Colle hanno le loro antenne, insomma grande irritazione presidenziale per quei commenti del premier così poco istituzionali.

Ora il Cavaliere spera di averci messo, come si dice, una pietra sopra. Però è davanti a un bivio. Strategico. Se tornerà dal Presidente e insisterà sul nome di Romani (corredato dai chiarimenti richiesti), Napolitano alzerà le braccia. Sarà il segnale (sussurrano ai vertici del Pdl) che il premier non rinuncia a tenere l’uscio socchiuso per Casini. Romani è un fedelissimo, il giorno che Berlusconi gli chiedesse di rientrare nei ranghi per far posto a un centrista, risponderebbe di sicuro «obbedisco». E la via per allargare la maggioranza sarebbe più agevole.

L’alternativa di cui si parla a Palazzo Grazioli è Galan. Potrebbe essere «deportato» allo Sviluppo per rendere felice la Lega, che a quel punto tornerebbe in possesso dell’Agricoltura oggi affidata all’ex-governatore del Veneto. Inutile dire che Bossi vedrebbe invece con qualche sospetto la promozione di Romani, oggi vice-ministro. Se dunque il Cavaliere vuole coprirsi le spalle con Bossi qualunque cosa accada, non ha che da spostare Galan. Salvo doversi difendere nel partito, e non solo dai finiani: troppo potere alla Lega, gli verrebbe rimproverato, «di questo passo ci mangiano vivi».

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