La tormentata parabola della Chiesa nel suo rapporto con economia e denaro, aiuta a capire qualcosa anche sui nostri tempi
di Riccardo Chiaberge
Nell’Europa del Medioevo non esistevano leggi anti-riciclaggio, ma l’Inferno funzionava molto meglio di adesso e il girone degli usurai era affollato di buoni finanzieri cristiani come Ettore Gotti Tedeschi. Fenus pecuniae, funus est animae, “il profitto del denaro è la morte dell’anima”, aveva ammonito a suo tempo papa Leone Magno. Chi presta soldi in cambio di interessi, si legge in un manoscritto anonimo del Duecento, commette un peccato gravissimo contro la natura, “pretendendo di generare denaro dal denaro, come un cavallo da un cavallo o un mulo da un mulo”. E nel suo manuale per confessori il vescovo inglese Tommaso di Cobham rincara la dose: “L’usuraio punta a guadagnare senza lavorare, addirittura dormendo; ciò va contro il precetto del Signore che ha detto: ‘Con il sudore del tuo volto mangerai il pane’”.
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Chissà quanta legna sarebbe necessaria per un Madoff o un Tanzi. Certo, le fiamme eterne per gli strozzini erano di ben scarsa consolazione per le loro vittime, che non potendo contare sulla giustizia degli uomini dovevano affidarsi a quella del Padreterno. Talvolta, però, la punizione arrivava in anticipo: si racconta di ricchi prestasoldi privati dell’uso della parola in punto di morte, in modo da non potersi confessare (ma forse si avvalevano della facoltà di non rispondere al sacerdote), o colpiti da infarto senza avere il tempo di pentirsi. E un domenicano di Lione narra un episodio spettacolare: “Nell’anno del signore
Tornando al succitato Gotti Tedeschi, attuale capo dello Ior, paragonarlo agli usurai del XIII secolo sarebbe ridicolo prima che ingiusto. Ma la storia millenaria della Chiesa e del suo rapporto tormentato e ambivalente col mondo dell’economia ci aiuta a capire tante cose anche sulla realtà dei nostri tempi. Lo stesso giorno in cui il Tribunale del riesame di Roma confermava il sequestro di 23 milioni di euro a carico della banca vaticana per certe movimentazioni sospette, il presidente interveniva a un convegno su etica e finanza promosso dall’Osservatore Romano e puntualmente ripreso dal laico Sole 24 Ore. E parafrasando il famoso passo del Vangelo di Marco sul cammello e la cruna dell’ago, si lanciava in un’ardita ipotesi teologica: “Il ricco, per entrare nel regno dei cieli deve diventare ancora più ricco, perché se la ricchezza non viene creata il rischio è poi di distribuire la povertà”. Anche se la ricchezza è frutto di speculazione, o peggio di frodi ai danni dei risparmiatori? Anche quando la gobba del cammello è gonfia di titoli tossici o di conti correnti intestati a prestanome?
COME RICORDA il grande medievista Jacques Le Goff nel suo Lo sterco del diavolo. Il denaro nel Medioevo (Laterza, pagg. 220, euro 18,00), l’unico modo di evitare l’Inferno, per un usuraio, era la restituzione del maltolto. Cosa che non avveniva di frequente, malgrado i fulmini del clero: come diceva re Luigi IX il santo, “è una pessima cosa appropriarsi dei beni altrui perché restituirli è così arduo che la sola pronuncia della parola rende strozza la gola a causa delle r che contiene, le quali rappresentano i rastrelli del demonio che sempre trascinano indietro coloro che hanno deciso di restituire i beni altrui”.
Poi con lo sviluppo dei commerci, l’aumento della circolazione monetaria e la crescita dell’indebitamento anche il mondo ultraterreno ebbe bisogno di ampliamenti, sicché fu istituito il Purgatorio, dove pure speculatori e strozzini avevano una chance di redenzione. Un regime di carcere meno duro, con possibilità di riduzione della pena per buona condotta. I più abili e meritevoli riescono a strappare un Lodo ad personam e vanno dritti in Paradiso senza fare anticamera. Basta qualche opera di bene o un oratorio dedicato alla Vergine. Tipico il caso degli Scrovegni, ricchi mercanti padovani del XIII secolo. Dante schiaffa il padre, Rainaldo, nel girone degli usurai, ma il figlio Enrico, che consolida il business di famiglia, espia la propria opulenza con un gesto esemplare di caritas: investe un mucchio di quattrini in una cappella affrescata da Giotto, raccomandando che il ciclo dei vizi e delle virtù non appaia punitivo verso la sua categoria. Come biasimarlo? Dopotutto, gli Scrovegni del Duemila non lasciano all’umanità chiese affrescate, ma ville ad Antigua e si comprano la benevolenza del clero vietando le unioni gay.
Peraltro è difficile mandare all’inferno i mercanti se ci si mostra più avidi di loro. Oltre a dover venire a patti con le leggi dell’economia, fin dal Medioevo
OGGI BENEDETTO XVI tuona giustamente contro il potere distruttore dei “capitali anonimi che pongono l’uomo in schiavitù” e predica l’avvento di un “mercato buono”, una specie di non profit universale che ricongiunga le sfere della giustizia e della carità. Ma il suo messaggio perde credibilità se la finanza vaticana, lo Ior o
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