LE CHIAMATE A MILANO PER FAR RILASCIARE
di Gianni Barbacetto
Il grande allarme scatta nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2010, quando Ruby, la minorenne che dice di essere stata ad Arcore da Silvio Berlusconi, viene “liberata” dalla questura di Milano dopo una telefonata arrivata dalla presidenza del Consiglio. In quella notte si mette in moto la rete di protezione che deve ad ogni costo “salvare” Ruby, e non solo lei. Quando a Berlusconi arriva, in diretta, la notizia che è stata fermata dalla polizia Karima El Mahroug, in arte Ruby, succedono due cose. Da una parte scattano immediatamente le telefonate che da Palazzo Chigi convincono il capo di gabinetto della questura di Milano a fare pressioni affinché la ragazza sia rilasciata, contro le regole e le procedure. Dall’altra scende in campo l’avvocato del presidente del Consiglio, Niccolò Ghedini, per cominciare a predisporre le contromisure atte a proteggere il capo.
Ora quella notte è diventata lo snodo cruciale della storia di Ruby. È il passaggio che mette a rischio i vertici della questura milanese, il capo di gabinetto Pietro Ostuni, l’allora questore Vincenzo Indolfi. La ragazza viene portata negli uffici di via Fatebenefratelli da una pattuglia del commissariato Monforte. È una minorenne. Aveva a suo carico una denuncia per scomparsa. Avrebbe dunque dovuto essere portata in una struttura per minori, oppure trattenuta in questura in attesa di essere trasferita l’indomani in una comunità. Così aveva disposto il magistrato di turno del tribunale dei minori, contattato via telefono dagli agenti.
Ma arrivano le pressioni da Roma. Telefona direttamente la presidenza del Consiglio: la ragazza deve essere subito rilasciata, “è la nipote del presidente egiziano Mubarak”. Il capo di gabinetto riceve e passa l’ordine a una funzionaria. Gli agenti tirano in lungo, non sono convinti della strana procedura che contraddice le disposizioni del magistrato. Allora la funziona-ria telefona lei al magistrato, o così dice. E poi insiste: rilasciate la ragazza.
AD ATTENDERLA, negli uffici della questura, c’è Nicole Minetti, la ballerina di Colorado Cafè diventata igienista dentale di Berlusconi e poi consigliere regionale della Regione Lombardia “con incarico presso la presidenza del Consiglio dei ministri”. Non solo: arriva (ma chi l’avrà mai avvertita?) anche la coinquilina di Ruby, la brasiliana Michele. Ruby viene affidata a Nicole Minetti, che la fa subito parlare al telefono con Berlusconi, e poi la lascia alla brasiliana, protagonista minore della vita notturna milanese, che sostituisce, su pressione della presidenza del Consiglio, la comunità di accoglienza. Poi scatta la rete di protezione più generale. Un compito delicato, affidato a diversi personaggi. Tra questi, Niccolò Ghedini, parlamentare del Pdl e legale di Berlusconi. L’avvocato in questi giorni sta sentendo decine di ragazze e di persone che negli ultimi mesi sono state ospiti, come Ruby, alle feste nella villa di Arcore. Sta compiendo una vera e propria indagine parallela a quella che
Ghedini si è piazzato nello studio del collega Giorgio Perroni (il difensore, tra gli altri, di Cesare Previti e di Claudio Scajola), in via Visconti di Modrone a Milano. E lì ha interrogato le ragazze e gli ospiti, verbalizzando diligentemente le loro dichiarazioni. Attorno a questa frenetica attività sono già fiorite alcune leggende che aleggiano negli studi degli avvocati milanesi e nei corridoi del Palazzo di Giustizia: avrebbe avuto incontri e svolto interrogatori anche in una stanza della villa di Arcore, dov’è di casa; e avrebbe iniziato queste “indagini difensive” già da mesi, almeno dalla fatidica notte tra il 27 e il 28 maggio 2010.
GHEDINI SMENTISCE : “le indagini difensive”, dichiara, “sono state svolte con assoluto rigore formale e sostanziale, alla presenza di altri colleghi e a personale di segreteria”; e sono state comunicate alla procura di Milano martedì scorso, quando è apparsa (sul Fatto Quotidiano) la prima notizia sul caso di Ruby. Quel giorno il legale del presidente del Consiglio si è rivolto personalmente ai magistrati della Procura di Milano per parlare delle attività che stava per intraprendere. Sì, perché le indagini difensive sono una procedura delicata. Chi le critica sostiene che possono di fatto inquinare le prove, quando il difensore arriva prima della pubblica accusa a sentire testimoni che vengono “formattati” su una versione dei fatti che sia conveniente alla difesa stessa.
Ma quando interroga, il difensore ha dei doveri: assume una qualifica pubblica e non può concordare una versione da raccontare poi al pm, né può omettere nel verbale ciò che il testimone dice, anche quando sia sconveniente alla difesa. Ne sa qualcosa l’avvocato torinese che per indagini difensive mal svolte ha sul groppone una condanna definitiva. Fu messo sotto processo dal magistrato di Torino Marcello Maddalena per falsità in atto pubblico e favoreggiamento. Fu condannato in primo grado, in appello e in Cassazione. Ghedini insiste: abbiamo fatto tutto secondo le regole e quereleremo chi, come i giornalisti dell’Unità, hanno sollevato dubbi a proposito. Quindi non è vero, sottintende l’avvocato, che si sia mosso subito dopo la notte tra il 27 e il 28 maggio.
3 commenti:
MI SA CHE QUESTA VOLTA LA VOLPE FINISCE IN PELLICCERIA!
Non illuderTi... questi sono gli INTOCCABILI!
Non illuderTi... questi sono gli INTOCCABILI!
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