sabato 27 novembre 2010

Se la giustizia funziona aumenta la fiducia


CARLO FEDERICO GROSSO

C’era una certa attesa per l’apertura del trentesimo congresso della magistratura associata. I magistrati avrebbero continuato, soltanto, a recriminare sulle colpe altrui nelle disfunzioni del sistema giudiziario e sugli attacchi subiti da governo e forze politiche, o avrebbero affrontato anche il tema, fondamentale, delle proprie manchevolezze? La relazione introduttiva, letta ieri dal presidente dell’Anm, non è stata, per fortuna, ambigua. Palamara ha reagito, com’era ovvio, agli attacchi subiti dall’ordine giudiziario e ha criticato le riforme che rischiano di minare l’indipendenza della giurisdizione. Ma ha, anche, ammesso l’esigenza di una riflessione interna sulla professionalità di giudici e pubblici ministeri e di un’autoriforma dell’organizzazione del sistema giudiziario e dell’etica professionale. Non possiamo accettare, ha detto il presidente, che vi siano cittadini che ci qualifichino come fannulloni super pagati, impegnati a proteggere nostri interessi di casta piuttosto che a esercitare onestamente l’attività giudiziaria.

Dobbiamo riconoscere tuttavia i nostri errori e avere il coraggio di cambiare, interrogandoci su ciò che non ha funzionato nell’esercizio del potere diffuso, nel sistema di autogoverno e nell’associazionismo giudiziario. Ben vengano queste parole. Il rapporto Doing Business 2011 della Banca Mondiale ha rilevato che l’Italia, in materia di efficienza giustizia, si colloca soltanto all’ottantesimo posto su 183 Paesi valutati, dopo lo Zambia, la Mongolia, il Ghana e il Ruanda, con danni ingenti per le imprese a causa dei ritardi nella conclusione delle controversie. Ebbene, le colpe di questo disastro non possono certo essere individuate esclusivamente nelle inerzie della classe politica e nella perfidia degli avvocati.
Devono essere reperite, anche, nella cattiva gestione, nella disorganizzazione, nelle incapacità, nella scarsa professionalità e/o moralità di alcuni di coloro che gestiscono i processi. Il problema è stabilire dove intervenire e come.

Il programma del congresso indica i nodi sui quali si dovrebbe operare e a ciascuno di essi dedica una sessione
: questione morale, autoriforma e professionalità, organizzazione degli uffici e del lavoro. Palamara ha cominciato ad annotare i passaggi fondamentali della, doverosa, presa d’atto dei problemi. Il magistrato, ha sostenuto, «non deve frequentare lobby e salotti», «non deve fare pressioni per diventare capo di un ufficio», «non deve seguire logiche clientelari», «non deve entrare e uscire dal mondo della politica senza seguire percorsi trasparenti» (direi meglio: se intende trasmigrare nella politica, deve dare le dimissioni dalla magistratura). Si potrebbero indicare altri profili altrettanto rilevanti: il magistrato non deve avere rapporti impropri con questo o quel politico, non deve esibirsi, non deve rilasciare interviste, non deve parlare dei suoi processi fuori dalle sedi processuali, non deve cercare a tutti i costi la vetrina.

E’ il tema della questione morale, esploso prima dell’estate quando si era appreso che alcuni magistrati erano entrati in consorterie, erano stati avvicinati, si erano adoperati, avevano deviato o cercato di deviare, si erano accaparrati in modo improprio voti e consensi per diventare capo di un ufficio. Al di là di questo problema, fondamentale dato che la categoria alla quale è affidato il controllo sulla legalità deve essere assolutamente specchiata, vi sono gli altri temi, fondamentali per la qualità e l’efficienza del servizio giustizia.
In primo luogo, la qualificazione professionale. Il nodo è rilevante, e purtroppo riguarda in larga misura le ultime leve della magistratura e quindi il futuro della giurisdizione. Occorrerebbe che i magistrati, tutti, fossero preparati, equilibrati, giusti, alacri, attenti, consapevoli della delicatezza della loro funzione. Libertà, onore, denari, interessi dei cittadini sono troppo importanti perché siano trattati, come accade talvolta, con disattenzione, distacco, arroganza, superficialità, ignoranza o violazione dei diritti. Ecco perché è primaria l’esigenza di ripensare alle modalità di selezione e al tema della preparazione e aggiornamento permanente della magistratura.

E questi temi, per lo meno alcuni di essi, ben potrebbero essere affrontati, in una prospettiva di autoriforma, dallo stesso ordine giudiziario. In secondo luogo, l’organizzazione degli uffici, delle udienze, degli orari, dei rinvii, dei turni, l’eliminazione delle cause inutili. Fattori, tutti, dal cui funzionamento può dipendere in larga misura il ritardo e la disfunzione. Qui davvero, se volessero impegnarsi, il ruolo che potrebbero esercitare autonomamente, e subito, i magistrati potrebbe essere decisivo. Ma per farlo occorrerebbe scrollarsi di dosso antiche abitudini, vecchie consuetudini, consolidate comodità. Vorranno davvero farlo? Bene ha fatto ieri il Presidente della Repubblica, presente all’apertura del congresso, a manifestare l’auspicio che si ripristini presto, nell’animo della gente, fiducia nella giustizia e apprezzamento per chi quotidianamente la gestisce. Bene faranno, soprattutto, i magistrati se, nelle temperie del momento, abbandonate le inutili recriminazioni, si rimboccassero fino in fondo le maniche. E’ quanto lascerebbero intendere l’impostazione del trentesimo congresso dell’Anm e le parole introduttive del suo presidente. Speriamo, peraltro, che non si tratti soltanto di parole.

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