GORGIO MELETTI
Sabato 23 maggio 2009, ore 15. Giorno di pallone. Il giovane saldatore Daniele Melis sorride. È piombato a pranzo dai genitori, come gli capita spesso di fare. Ma stavolta ci sono novità grosse, non sta nella pelle. “Mamma, una bella notizia!”. È la sua formula. A undici anni aveva fatto un identico rientro a casa trionfante: “Mamma, una bella notizia! Ho trovato lavoro”. Lucia Comparetti, classe 1961, ricorda con tenerezza il buffo, urgente affacciarsi di suo figlio al mercato del lavoro. Si era messo d’accordo con il meccanico dietro casa: “Vado a dargli una mano e intanto imparo il mestiere”. In quel sorriso soddisfatto di Daniele, Lucia vede la sconfitta di una generazione: “Mio padre da ragazzino ha fatto l’apprendista panettiere ed era pagato. Oggi i nostri figli per imparare devono lavorare gratis”. Per Gino Melis, classe 1957, il sorriso di Daniele rivela la voglia di fare, di riscattarsi con il lavoro. Lo ripete con fierezza sorda e remota: “Mio figlio non era certo un mandrone, non conosceva la pigrizia”.
Il sabato a Villa San Pietro è giorno di pallone. Daniele, che tra una settimana compie 29 anni, ha fretta. Ha fatto i due chilometri fino a Sarroch, si è infilato nel senso unico di via Lazio, dove i suoi genitori abitano da un paio d’anni con i tre figli più giovani. Ha parcheggiato la sua Ford Focus tre porte grigio scuro, con mezzo bagagliaio occupato da un gigantesco woofer, e sul portellone il suo bravo adesivo con i quattro mori. “Mamma, una bella notizia! Fascia di capitano!”. È euforico. Sa Natzionali Sarda, squadra che milita nel campionato amatori dell’Aics (Associazione italiana cultura e sport), ha scelto proprio lui. Con otto gol in sedici partite, è Daniele il capocannoniere della squadra. È stata una sua doppietta, a novembre, a trascinare i compagni alla vittoria contro il Nora, e a dicembre un’altra doppietta ha coronato il successo fuori casa contro Su Morigu. Il calcio è uno dei modi più diffusi di declinare la gioia di vivere. Daniele non sa che proprio quella mattina, a Roma, una squadra di giovani preti,
Mourinho e l’azoto
Proprio in quelle ore, a Milano, l’allenatore dell’Inter José Mário dos Santos Félix Mourinho, che ha appena vinto matematicamente lo scudetto, mette in allarme l’ambiente confermando che potrebbe mollare il generoso presidente Massimo Moratti per andarsene al Real Madrid. Moratti è furente e, secondo qualcuno, si sta già guardando intorno per trovare un sostituto. Nel frattempo, i giornali sportivi fanno i conti. Mourinho ha un contratto triennale con l’Inter, ma può liberarsene pagando una penale di “soli” 16 milioni di euro (il suo stipendio lordo di un anno), una cifra che si può eventualmente sacrificare in vista di più laute soddisfazioni in Spagna. Il tecnico portoghese sta completando i preparativi per la trasferta dell’indomani. La penultima partita di campionato vede l’Inter schierata proprio a Cagliari, a meno di
Ore 17: nel pomeriggio del sabato il capoturno Giovanni Biella, alle prese con la pulitura dell’Mhc1, fa aprire l’accumulatore D-106, che nei giorni precedenti è stato svuotato e raffreddato. La procedura è molto complessa e risponde a ponderosi manuali d’istruzioni, predisposti dalla Saras secondo gli obblighi delle leggi sulla sicurezza. Come gli altri accumulatori, anche il D-106 deve essere bonificato. Devono cioè essere tolti i residui di gas o i liquidi infiammabili, che a contatto con l’ossigeno possono causare esplosioni. Le procedure Saras prevedono il trattamento con vapore molto caldo. Stavolta però qualcuno decide di saltare questa fase: il vapore produce un tale calore che la cisterna, costruita con un acciaio spesso
Martedì 26 maggio, ore 13.50. L’ora fatale. Gianpietro Melis detto Giannino, caposquadra della Comesa, dispone i suoi uomini in campo. Gigi Solinas e Renato Porcu andranno a lavare (idrodinamicamente) la cisterna D-106. Ci sono poi delle apparecchiature da montare, e se ne occuperanno un operaio esperto come Bruno Muntoni e il più giovane Gianluca Fazio, un ragazzo di trent’anni che per questo lavoro di pochi mesi ha lasciato a Siracusa moglie e due figli. Gianluca è il nipote di Salvatore Fazio, uno dei boss della Comesa ed è stato lo zio a chiamarlo in Sardegna. Una piccola occasione di lavoro, niente di esaltante, però c’è anche chi lascia la famiglia e attraversa il mare per 900 euro al mese. Daniele Melis deve fare le verifiche per le molature di cui ha bisogno lo scambiatore E-108. Gigi e Renato sono pronti. “Aspettatemi che vado a prendere il permesso” sosterrà di aver detto Giannino. La procedura è formale e complessa. La raffineria è un posto pericoloso e i ragazzi delle ditte prima di avvicinarsi a un impianto devono avere il permesso di lavoro. Giannino dunque va a prendere il permesso di lavoro numero 10606027. È pronto da sei giorni, sopra c’è già scritto tutto: che la cisterna D-106 è stata bonificata con il vapore (cosa non vera) e che tra i pericoli da cui guardarsi ci sono sostanze nocive o tossiche, gas e vapori. Ma nel permesso di lavoro numero 10606027 la parola “asfissianti” è cancellata.
La morte di un capitano
L’azoto dunque non è tossico, tuttavia è in grado di dare la morte più rapida che esista in natura: dieci secondi al massimo. Se si va a pulire la morchia di un accumulatore come il D-106 bisogna quindi essere ben sicuri che ci siano le condizioni per la vita, cioè ossigeno in quantità sufficiente. È d’obbligo, prima di far entrare gli operai, che qualcuno verifichi che l’ossigeno sia tornato almeno al 19 per cento. Sul permesso di lavoro numero 10606027 c’è scritto anche che la verifica dell’ossigeno è stata fatta. Giannino ha già in mano il documento, manca però l’ultima firma, quella del “delegato competente”. Gigi non aspetta. È vero che “la fretta è nemica della sicurezza”, ma è pure vero che alla Saras ancora non si è visto nessuno premiato per la lentezza. E quindi si avviano, Gigi e Renato, sul ponteggio che porta al passo d’uomo del D-106. L’accumulatore è aperto, non c’è alcun segnale di pericolo. Gigi toglie la plastica celeste (“colore rassicurante”) dal boccaporto laterale largo quanto le spalle di un uomo. Per ora vuole solo vedere quanta morchia si è depositata, valutare quanto sarà complicato il lavoro. Si infila nel pertugio con un movimento disinvolto, rapido, abituale, perché ormai i suoi annetti di esperienza li ha anche lui. Non si accorge di quella manichetta color rosso mattone che da 72 ore sta soffiando azoto dentro la cisterna, in primo luogo perché l’azoto è incolore e inodore.
Ma soprattutto perché l’operaio Solinas, pur non avendo letto i Lineamenti di filosofia del diritto di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, ha interiorizzato, da figlio legittimo del moderno Occidente industrializzato, l’idea secondo cui “ciò che è razionale è reale”. In quella manichetta l’azoto non ci può essere per la semplice ragione che non ci deve essere. Per Gigi quel tubo ha le stesse probabilità di buttare azoto di quante ne abbia di spargere essenze di Dolce&Gabbana per allietargli il pomeriggio. Come tutti, Gigi ha addosso il rilevatore dell’H2S, il temibile acido solfidrico, che brucia gli occhi, fa sentire male e può anche uccidere. Hanno tutti un sacro terrore dell’H2S. Invece non ha, come nessuno alla Comesa, il rilevatore di ossigeno, pronto a suonare quando la percentuale nell’aria scende sotto il 21 per cento. Nella valutazione, fatta dalla Saras, dei costi per la sicurezza da riconoscere alle imprese appaltatrici per i lavori sull’Mhc1, i rilevatori di ossigeno non ci sono proprio. A Gigi Solinas basta affacciarsi al passo d’uomo per perdere i sensi e accasciarsi nella cisterna. Renato Porcu che è lì vicino si mette a urlare: “Gigi è caduto! Gigi è caduto!”. Capisce subito che è successo qualcosa di grave. Gigi non parla e non si muove. Renato ipotizza che sia rimasta lì dentro una quantità di H2S sufficiente a provocare un malore. O forse, pensa, Gigi ha battuto la testa ed è svenuto. Chiama aiuto con un tono alto e disperato che allarma tutti i compagni di lavoro. Gigi Solinas è lì, steso dentro la cisterna, immobile. È già morto.
I primi ad accorrere sono Muntoni e Fazio, che stanno lavorando all’Mhc1, ma sui ponteggi del piano superiore. Scendono. Pensano che Gigi sia precipitato dal ponteggio verso l’esterno. Si affrettano a cercarlo giù, sotto la cisterna. Renato Porcu sembra fuori di sé, è corso a prendere una maschera antigas dalla cassetta degli attrezzi. Gianluca Fazio nota una luce accesa sul passo d’uomo della cisterna. Intuisce che Gigi è finito dentro il D-106, si arrampica di nuovo sul ponteggio, afferra il faretto appeso sul passo d’uomo, lo punta verso l’interno, vede il compagno steso sul fondo della cisterna, immobile. Subito grida a Muntoni: “È qui dentro!”. Poi si affaccia verso l’esterno del ponteggio e, urlando, invoca soccorso: “Chiamate i pompieri! Chiamate l’ambulanza”.
Pochi istanti per chiedere aiuto sporgendosi dal ponteggio, il tempo di girarsi nuovamente, e Bruno Muntoni è già per metà dentro il passo d’uomo. Neanche lui ha pensato all’azoto. Eppure un operaio con quasi quarant’anni di esperienza in raffineria sa troppo bene che, se quel ragazzo è per caso entrato in una cisterna satura di azoto, in primo luogo non c’è più niente da fare, in secondo luogo chiunque si affacci per prestargli soccorso farà rapidamente la stessa fine. Ma il dubbio non c’è, e Bruno per aiutare il compagno si affaccia con decisione dentro il boccaporto, strisciando contro la manichetta color rosso mattone che continua a soffiare azoto. “Fermati!” gli grida Luca, che ha già capito che lì dentro non si respira, ma è un lampo, Bruno ha già perso i sensi. Il ragazzo siciliano d’istinto lo afferra per le gambe, cerca di tenerlo, di tirarlo fuori di lì, ma il compagno non ha più reazioni e il suo peso si è istantaneamente moltiplicato. Gianluca non ce la fa: anche lui, fuori della cisterna, sta respirando aria troppo povera di ossigeno. Perde la presa, cade fuori del boccaporto, Bruno Muntoni precipita dentro l’accumulatore. È già morto anche lui.
Il panico e le urla si moltiplicano. Gianluca Fazio si sente male. Riesce però a bloccare Mauro Puddu, operaio della Saras accorso e già in procinto di lanciarsi dentro il D-106. “Lì dentro non si respira!” grida Luca, e il collega si ferma. Ma ecco che arriva Daniele Melis, nuovo capitano di Sa Natzionali Sarda. Un capitano è sempre un capitano. E l’azoto è inodore. Non esita, si arrampica sul ponteggio e grida al drappello di colleghi disperati: “Vado io che sono più forte!”. Fazio prova a trattenerlo, ma non ha abbastanza energia, è steso per terra. Daniele afferra la maschera antigas dalle mani di Renato Porcu e si avvicina al passo d’uomo. Difficile immaginare che cosa gli passi per la mente in quel momento. Si sta interrogando sulla possibilità che dentro la cisterna ci sia l’azoto? Sta calcolando il rischio pazzesco a cui va incontro? Forse non pensa a niente. Vede due amici in pericolo ed è spinto da un istinto troppo umano. Ma certo non irrazionale: lì dentro l’azoto, secondo le regole per la sicurezza del capitalismo italiano, uno dei più avanzati al mondo, non c’è. Daniele si infila con decisione nel passo d’uomo. Pochi istanti ed è morto anche lui.
I padroni e le maestranze
Stesso giorno, ore 16.15. I fratelli Moratti si dichiarano addolorati. Massimo Moratti, presidente dell’Inter e amministratore delegato della Saras, appresa la notizia dell’incidente di Sarroch mentre si trova fuori Milano, sta rientrando precipitosamente nel proprio ufficio. Da lì proseguirà insieme al fratello Gianmarco, che della Saras è il presidente, verso l’aeroporto di Linate: un volo privato li porterà a Cagliari. Affidano all’ufficio stampa dell’azienda una breve nota: “Stiamo raggiungendo la raffineria per stare vicino alle famiglie dei tre lavoratori e alle maestranze della società”. Sulla parola maestranze torneremo più avanti. Qui basterà dire che nel vocabolario un po’ arcaico di casa Moratti il termine indica lo strato basso della forza lavoro, quello meno qualificato e meno pagato. In realtà i due fratelli volano in Sardegna per stare vicini ai dirigenti, impegnati in concitate riunioni nelle quali si discutono, tra l’altro, le spiegazioni da dare ai magistrati.
I dipendenti della Saras e delle ditte appaltatrici, messi in libertà subito dopo l’incidente dal direttore dello stabilimento Guido Grosso, sono fermi sul piazzale davanti ai cancelli della raffineria: non riescono a staccarsi, animano una muta protesta, soprattutto parlano sottovoce in piccoli capannelli. Tutti quegli occhi arrossati non li vedono neanche passare, i Moratti. Le famiglie delle tre vittime incontreranno i padroni solo il giorno dopo. Affidandosi alle cronache di quelle ore, che pure risultano estremamente minuziose, rimane un mistero come i Moratti abbiano passato la sera del 26 maggio in Sardegna. Lo scopo dichiarato del viaggio (“stare vicino alle famiglie dei tre lavoratori e alle maestranze”) non trova alcun riscontro nella realtà. L’unica ipotesi plausibile è che
C’è qualcosa di stridente, forse di feudale, nel dichiararsi personalmente colpiti dalla morte di tre delle duemila persone a te sconosciute che lavorano in una fabbrica a mille chilometri di distanza dalla tua casa e dal tuo ufficio, unicamente perché quell’azienda è la tua. L’angoscia sbandierata dai Moratti avrebbe una ragione se riferita a un senso di colpa, sia pure generico. Al contrario, scopo evidente nella strategia di comunicazione della Saras è far emergere subito, con naturalezza, come un sughero che galleggia per legge di natura, l’idea che
Nessun commento:
Posta un commento