MARONI HA UNA CONDANNA DEFINITIVA PER RESISTENZA A PUBBLICO UFFICIALE
di Gianni Barbacetto
C’è un filo d’autolesionismo, nelle ultime scelte di Roberto Maroni, leghista doc e ministro dell’Interno. Sdegnato per le violenze degli studenti contro la polizia durante la manifestazione del 14 dicembre, indignato per le scarcerazioni dei ragazzi fermati quel giorno, oggi chiede che i violenti siano tenuti in carcere. A dargli retta, si otterrebbe un risultato curioso: in carcere dovrebbe finire, e restarci, lui stesso. Per via delle violenze esercitate nei confronti dei poliziotti un pomeriggio del 1996.
ERA IL 18 SETTEMBRE e Bobo Maroni era davanti alla sede della Lega Nord in via Bellerio, a Milano. Alle 7 del mattino la polizia si era presentata a perquisire, a Verona, uffici e abitazioni di Corinto Marchini, il capo delle “camicie verdi”, e di due leghisti a lui vicini, Enzo Flego e Sandrino Speri. Gli agenti erano stati mandati da Guido Papalia, procuratore della Repubblica di Verona, che stava indagando sulla Guardia Nazionale Padana, sospettata di essere “un’organizzazione paramilitare tesa ad attentare all’unità dello Stato”. Marchini aveva un ufficio anche in via Bellerio, a Milano. Così due pattuglie della Digos veronese arrivano alle 11 alla sede della Lega e tentano di entrare. Invano: i militanti leghisti impediscono l’accesso. Tornano il pomeriggio, con un provvedimento integrativo di perquisizione. Riescono a fatica a entrare nell’androne, ma lì sono fermati da un cordone di leghisti, tra cui Maroni, che impedisce l’accesso alla scala. Spintoni, parapiglia. Alla fine i poliziotti sfondano e riescono a salire. Ma Bobo, che in gioventù era stato militante di Democrazia proletaria, non demorde: “Il primo vero e proprio episodio di violenza”, annotano le cronache, “è compiuto da Maroni che tenta di impedire la salita della rampa di scale, bloccando per le gambe gli ispettori Mastrostefano e Amadu”. I due si divincolano e salgono, con tutti i loro colleghi. Ma la squadra Maroni non si ferma: insegue gli agenti, li copre d’insulti, tenta di bloccarli con la forza. I cori ingiuriosi sono diretti da Mario Borghezio , mentre “numerosi atti di aggressione fisica e verbale nei confronti dei pubblici ufficiali” sono compiuti da Maroni, ma anche da Umberto Bossi e Roberto Calderoli: “Episodi tutti documentati dai filmati televisivi”. Con fatica, gli agenti arrivano davanti all’ufficio di Marchini che devono perquisire. Lo trovano sbarrato. Sulla porta, un biglietto scritto a macchina: “Segreteria politica - Ufficio on.le Maroni”. La porta è sfondata. “Operazione che tuttavia era ostacolata violentemente” da Maroni, Bossi, Borghezio, Calderoli e altri, “che aggredivano principalmente il dottor Pallauro e l’ispettore Amadu, il quale veniva stretto fra gli imputati Maroni, Martinelli e Bossi, che lo afferrava dal davanti, mentre il Martinelli lo prendeva alla spalle”. La guerriglia finisce con un malore : Maroni “viene disteso a terra dall’agente Nuvolone, per poi essere avviato al pronto soccorso, ove gli venivano riscontrate lesioni per le quali sporgeva querela”.
FIN QUI la cronaca delle violenze contro la polizia del 18 settembre 1996. Segue inchiesta e processo penale per resistenza a pubblico ufficiale. Il deputato Maroni nel processo mente: sostiene, come un black-bloc qualunque, di essere stato aggredito dai poliziotti. Ma in dibattimento viene dimostrata “la non veridicità dell’assunto del Maroni”, poiché è “documentato che nell’ascesa della rampa delle scale, trovandosi a terra, e non per le percosse ricevute, tratteneva con la forza gli operanti afferrando la caviglia dell’ispettore Mastrostefano e poi le gambe dell’ispettore Amadu”. E lo svenimento finale? Per i giudici è provato che Maroni “era caduto in terra per un improvviso malore, nella fase finale dell’accesso degli operanti nella stanza da perquisire, circostanza attendibilmente confermata dal teste Nuvoloni della Polizia, che lo aveva soccorso, e forse colpito anche involontariamente, in tale posizione, nella ressa creatasi sul luogo, o già raggiunto, presumibilmente, da spinte nel corso della vicenda che vedeva un accalcarsi incontrollato di persone, compresi giornalisti e simpatizzanti della Lega Nord”.
DRAMMATICO ed esilarante insieme. Comunque, “la resistenza” di Maroni e degli altri leghisti “non risultava motivata da valori etici, mentre la provocazione era esclusa dal fatto che non si era in presenza di un comportamento oggettivamente ingiusto ad opera dei pubblici ufficiali”, i quali “erano comunque tenuti a portare a compimento l’ordine loro impartito”. Così le azioni violente compiute da Bobo sono state ritenute, si legge nella sentenza della Cassazione, “inspiegabili episodi di resistenza attiva, e proprio per questo del tutto ingiustificabili”. Condanna in primo grado a 8 mesi. In appello a 4 mesi e 20 giorni, perché nel frattempo era stato abrogato il reato di oltraggio.
1 commento:
BOBO IN GALERA NON CC'E' STATO NEMMENO UN MINUTO, PURTROPPO.
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