sabato 11 dicembre 2010

Assange e la rivincita degli hacker


di Federico Mello

“Fuoco!” scrivono su Twitter gli Anonymous, il gruppo di hacker che sta seminando il panico sul Web in difesa di Julian Assange. Negli scorsi giorni sono capitolati i siti Visa, Mastercard e Paypal “colpevoli” di aver bloccato i conti di Wikileaks. Adesso la web-guerriglia scatenata dagli Anonimi – nome dell’operazione “Payback” (resa dei conti) –, ha messo nel mirino i siti istituzionali del governo svedese e, in seguito al fermo di un hacker sedicenne in Olanda – altri arresti sarebbero in arrivo –, da giovedì sotto attacco sono finiti anche il sito web della Procura e della polizia olandese.

Fino a qualche mese fa impegnati soprattutto in cyber burle (cyberpranks), con Assange in gattabuia gli Anonimi si sono messi a fare sul serio; coordinandosi sul Web possono abbattere qualsiasi sito: arrivano troppe richieste e il server va in tilt.

Mendax (“il bugiardo”) così si faceva chiamare Assange quando era solo uno smanettone. Oggi ha 39 anni e in tutto il mondo sta diventando un’icona come in epoche lontane lo sono stati Che Guevara, Malcom X e, più recentemente, il Subcomandante Marcos.

Mendax non ha solo messo in moto un ciclone che sconvolge l’informazione, la diplomazia, la politica.

La sua è anche rivoluzione culturale: la rivincita degli hacker.

La chioma canuta del capo di Wikileaks si staglia al fianco delle statuette dei Re Magi.

Un hacker icona tra i vicoli di Napoli: chi l’avrebbe detto solo un anno fa?

Per decenni nel linguaggio comune e della stampa, il termine “hacker” serviva più a descrivere i criminali informatici intenti a clonare carte di credito (chiamati “cracker” in modo dispregiativo dai veri hacker), che i cavalieri della libera informazione (“informations want to be free” è da sempre il loro primo comandamento). Con Assange anche la definizione di hacker risplende di nuova luce. Torna alle origini del Mit di Boston, della California, del “Club del computer fatto in casa” a Menlo Park dove da metà degli anni Settanta s’incontravano freak, nerd, yippie, Bill Gates e Steve Jobs.

Il termine hacker torna alle gesta di John Draper, meglio noto come Captain Crunch, che nel 1971, con un fischietto trovato in regalo in una confezione di cereali, riuscì a emettere suoni della giusta frequenza per costruire la prima “blue box”, un primordiale modem per telefonare gratis.

Sulla volta di un laboratorio del Massachusetts institute of technology è scolpita la parola “Hack”. Nel milieu culturale del Mit, già negli anni ‘60 la pratica degli hack veniva considerata l’unica attività in grado di gratificare i cervelloni che si dedicavano all’informatica. Sul sito dell’Università ancora adesso un’intera sezione è dedicata agli hack: “Scherzi, giochi e sistemi intelligenti, di stampo etico che portano il gusto della sfida e del divertimento nella comunità del Mit”. Gli hacker erano quelli mossi dall’ “hand’s on imperative”, l’imperativo di “mettere le mani sopra” un computer, un congegno, per aprirlo, smontarlo, ricostruirlo, migliorarlo. Per la cultura hacker l’unica cosa che conta è la sfida intellettuale: i primi computer assemblati venivano snobbati dalla comunità: che gusto c’era a comprare una scatola già pronta? Molto più gustoso costruirselo da soli assemblando i pezzi allegati alla rivista Popular Electronics. Su questa spinta il movimento negli anni si è politicizzato.

Dai primi testi autoprodotti negli anni Settanta come “Computer Liberation” di Ted Nelson, alle campagne di Richar Stallman, tuttora leader carismatico e indiscusso della Free Software Foundation, i principi degli informatici sono stati poi sistemizzati nel libro cult di Steven Levy: “Hackers: gli eroi della rivoluzione informatica” che nel 1984 gettò le basi dell’etica hacker:

1) L’accesso ai computer deve essere illimitato;

2) Tutta l’informazione deve essere libera;

3) Dubitare delle autorità, promuovere il decentramento;

4) Con un computer puoi creare arte (che nell’intestazione di alcuni software diventerà “Il codice è poesia”);

5) I computer possono cambiare la vita in meglio.

Oggi, quasi trent’anni dopo, tutto ciò, viene incarnato massima potenza mediatica e politica da Assange, hacker della nuova generazione informatica tangente ai tanti appassionati che da bambini ebbero un Commodore16 o un Vic20 in regalo per Natale.

Il giovane Mendax, nel 2010 ha preso l’etica hacker, l’ha esaltata con le possibilità del Web, l’ha aggiornata con i “contenuti generati dagli utenti” (nel suo caso dalle fonti), l’ha saldata con il giornalismo professionale, e ha combinato un gran casino.

“Il nostro obiettivo è quello di raggiungere una società giusta. Trasparenza e apertura portano esattamente in questa direzione”.

Con Assange, per la prima volta ci siamo accorti che gli hacker hanno cambiato il mondo.

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

CARE POTENZE E SUPERPOTENZE, ADESSO SO' CAZZI!