martedì 7 dicembre 2010

COLTI SUL “FATTO” Italia 2010 cronache noir


L’ultimo libro di Travaglio, le notizie contro i ricatti

La memoria, le inchieste, gli archivi: il racconto dei conflitti come antidoto al morbo della“normalità” Un’antologia degli articoli apparsi nell’ultimo anno

di Barbara Spinelli

Mi sono chiesta, più volte, quale sia il segreto di Marco Travaglio. Probabilmente quello svelato da Indro Montanelli, quando per la prima volta lo incontrò e si chiese chi mai fosse questo personaggio che tanti dipingevano come un temibile Barbablù: “No, Travaglio non uccide nessuno. Col coltello. Usa un’arma molto più raffinata e non perseguibile penalmente: l’archivio”. Per anni gli è stato impossibile insediarsi stabilmente in una redazione, essendo attaccato alle sue sterminate informazioni come a una flebo. Ci sono momenti in cui mi fa pensare ai precog di Philip Dick: quelle creature spaesanti che hanno il dono della pre-cognizione perché posseggono sterminate memorie di crimini e misfatti, commessi dai potenti in un passato tenuto nascosto. Il precog è l’Unheimlich che fa irruzione nella vita comunemente definita normale: il non-familiare, l’estraneità che inquieta. “Freud nota che la peculiarità del vocabolo risiede nella strana capacità di tramutarsi nel suo contrario, l’Heimlich (ossia ciò che è ‘familiare’), e viceversa. L’ambiguità linguistica lo porta alla conclusione che il ‘perturbante’ non è cosa nuova alla vita psichica, bensì familiare da sempre, pur essendo divenuta estranea tramite il processo della rimozione”.

In realtà non c’è niente di strano o fantastico in questa dote, per un giornalista che abbia a cuore il proprio mestiere. Il non-familiare e perturbante gli è da sempre familiare, fratello: la conoscenza nutrita di memoria dovrebbe essere l’aria che respira, che comunque preferisce respirare. Il giornalista senza archivi è come un ombrello senza stecche. Se Marco fa tuttavia pensare ai precog c’è un motivo preciso: perché è il depositario, nella storia italiana che ci è contemporanea e che nel frattempo è abbastanza lunga, di un Minority Report. Di depositari ce ne sono in Italia, ma il più delle volte fanno il morto o il giunco, aspettando che la piena passi. C’è un’altra versione della storia nazionale, infatti, rispetto alle contraffatte versioni ufficiali: una versione sommersa, negata, e Travaglio ne è il custode impavido da decenni. (…). Quando le verità storiche di un paese sono sepolte per più di mezzo secolo, quando i reati s’affastellano senza mai essere chiariti e i criminali continuano a girare indisturbati, tutto diventa minority report: il senso delle leggi, le regole della civile convivenza, perfino la Costituzione del ’48. Chi intravede e raffigura il fuori-scena mette in mostra paesaggi loschi, viene a contatto con gli universi noir di Raymond Chandler o Dashiell Hammett: costellati di malavitosi mai afferrati, solitari detective sempre aggirati, corrotte città di veleni i cui raccolti hanno il colore del sangue.

Lo sdegno e il buon umore

MA C’È QUALCOSA di più: leggere gli articoli e i libri di Marco (non so come faccia, è un mistero dickiano anche questa sua energia) suscita due passioni apparentemente molto diverse. Suscita sdegno per gli eventi che racconta, e mette in stato di formidabile buon umore: per un giornalista resistente, il miscuglio è raro. Mi è capitato di paragonarlo al reporter Seymour Hersh, che disvela con metodica e ammirevole costanza le oscurità della politica di sicurezza americana. Ma Hersh non mette di buon umore; è più cupo. La resistenza di Ernesto Rossi durante il fascismo aveva invece questo duplice timbro, a giudicare dai disegni che faceva dei compagni di confino a Ventotene, e la sua prosa non smise mai di mescolare l’invettiva più seria alla beffa sorridente. (…)

L’antologia dei suoi articoli sul Fatto Quotidiano narra un pezzo di questa storia italiana , che appunto è storia criminale e noir essendo tempestata di leggi ad personam, di giornali e giornalisti che non fanno il lavoro cui sono chiamati, della privatizzazione del nobile e rischioso compito che è la politica. Il filo conduttore che lega i testi è il rispetto dei fatti, la lotta contro le verità (e le falsità) ridotte a opinioni. Travaglio ha scritto un libro su questa vocazione all’escamotage dei fatti, e non è un caso che assieme ad Antonio Padellaro abbia fondato un giornale che ha proprio questo titolo: Fatto Quotidiano. Grazie a lui, siamo in grado di percepire ancor meglio e di temere quella che Hannah Arendt chiamava defattualizzazione della realtà. Anch’essa è irruzione, nelle vite degli individui e delle nazioni, dell’Unheimlich. Gli italiani già conobbero la defattualizzazione durante la Prima Repubblica, data per morta quando si attivarono i magistrati di Mani Pulite, ma in effetti resuscitata sotto forma di Seconda Repubblica più sfacciatamente corrotta. (…) Come altri libri di Travaglio, questo narra di anni di politica privatizzata, di “bande larghe” ancor più proliferanti, di un bombardamento di manipolazioni a tappeto, e dell’afonia con cui un’intera classe dirigente ha risposto alla cattura dello Stato e della realtà che caratterizza la Seconda Repubblica. (…) Quel che viene alla luce nell’antologia è il morbo che si è insediato più forte e tenace che mai, nonostante Mani Pulite e la fine apparente della Prima Repubblica.(…) Il morbo – lo ha spiegato bene Gherardo Colombo – è la “società del ricatto” che fonda la politica italiana fin dal dopoguerra, quando gli alleati dovettero ricorrere alla mafia siciliana per liberare l’Italia dal fascismo. Fu allora che “venne stabilito un rapporto di ‘quieto vivere’ con questa organizzazione criminale, che ha caratterizzato decenni della nostra storia. È stato un accordo necessariamente occulto. E ancora più occulto e opaco è stato necessariamente il suo perpetuarsi. Cosa ha potuto produrre se non il ricatto? Il ricatto dei poteri criminali sulla politica”. Nel metabolismo politico-sociale del paese, “ci sono ancora le tossine dei ricatti possibili che consigliano di organizzare le nuove regole della Repubblica non intorno al conflitto, ma al compromesso”.

A questo compromesso si dà il nome di normalità: uno dei vocaboli che più hanno manipolato e rimpicciolito le teste degli italiani, caldeggiato con pomposa solennità non solo a destra ma anche a sinistra, e con peculiare predilezione nella sinistra postcomunista che ama presentarsi come riformista, centrista, pronta ai più portentosi mimetismi. Tutti i mali verrebbero in Italia dal conflitto: un altro vocabolo-bandito che mette speciale paura nella vecchia dirigenza comunista. L’ex comunista introietta l’accusa di essersi solo esteriormente liberato del passato, e questo l’induce a comportarsi come chi deve costantemente espiare una macchia vergognosa: non la macchia dell’ideologia comunista, ma del conflitto in quanto tale, dell’opposizione dura, dei toni alti. Sente di aver raggiunto l’apice dell’emancipazione quando mortificato tace, quando al massimo mormora nebbiosamente e raccomanda quei compromessi che Massimo D’Alema chiamò nel 1995 inciucio, e che quattordici anni dopo minimizzò ricorrendo alla smancerosa grazia d’un diminutivo (“È quasi meglio che facciano una leggina ad personam per limitare il danno all’ordinamento e alla sicurezza dei cittadini”, Corriere della Sera, 17/12/2009). Scaltrito per natura, sempre all’erta quando fiuta punti deboli nell’oppositore, il premier che ha spostato Palazzo Chigi a Palazzo Grazioli – mettendo al posto d’uno spazio pubblico uno spazio privato – ne ha profittato lungamente, non smettendo mai di eguagliare l’avversario al nemico, e il conflitto alla guerra.

Io credo che la forza di Travaglio sia quella di chi considera normale e benefico il conflitto, e anormale il compromesso opaco e occulto che sta dietro a parole come normalità, pacificazione, toni bassi, convergenza. E qui si ritorna a Philip Dick. Anche sulla patologia indicata da Gherardo Colombo, infatti, esistono due versioni, una maggioritaria e una non ufficiale, insabbiata nel minority report. La versione ufficiale spiega così la patologia: l’Italia e la sua democrazia soffrono di contrasti troppo aspri, di conversazioni troppo accese, e di un’opposizione a Berlusconi troppo ossessiva, straripante. (…) Ben altro dice il minority report: il malanno italiano consiste non nel conflitto eccessivamente intenso, ma nel patto o nella concordanza eccessivamente desiderati. È la marmellata di quest’accordo che ha bisogno – urgente – di essere esposta alla luce del giorno, e regolata: in questo caso, sì, s’impone una drastica moderazione. Se non si smorza tutto questo dolciume, se non si restituisce al nostro cibo l’amaro e il sale che gli mancano, il patto prende il sopravvento, nelle forme torbide e volutamente inafferrabili che conosciamo. Se non si smaschera la potenza delle sue ramificazioni (il peso della mafia, della ’ndrangheta, della camorra), la melma in cui ci tocca vivere non svanirà. Il compromesso attorno a cui si vorrebbe ricomporre la Repubblica non elimina le tossine. Ne conferma la sopravvivenza senza intaccarle. (…)

C’è infine un’altra infermità italiana, di cui Travaglio fa la diagnosi: il mestiere dell’informazione. Anch’esso traversa una fase di anomia, di leggi interiori che evaporano: cancellando fatti e notizie, incapace di sguardo che scruta, buona parte del giornalismo scritto tende a confondersi con i notiziari ipercontrollati delle televisioni e mostra non la realtà com’è, ma una mistificata realtà parallela, trasformata in film d’azione permanentemente affannato, distraente, e futile. La filastrocca che condanna il conflitto ha, nei giornali italiani, radici più profonde di quanto i loro redattori ammetterebbero. E il mistero di questa consapevolezza attutita è, anche qui, il conformismo. Troppo spesso i direttori spendono il tempo, la sera prima di chiudere la prima pagina, telefonando ai colleghi direttori delle altre testate temendo di apparire eccentrici e “sbagliare” i fondi, le aperture, le spalle, i titoli. Chi legge gli articoli che Travaglio scrive ogni giorno sul Fatto (in passato sull’Unità) ha davanti a sé analisi dettagliate di quel che accade: ci sono dati, fatti, sentenze di tribunale, e in ogni caso nessuna paura dell’eccentricità.

C’è lavoro approfondito sulle fonti, sull’origine della notizia. C’è memoria storica, che è forse quello che più manca, oggi, in mezzi di comunicazione troppo dipendenti da interessi estranei all’editoria. Quando Marco cita la dichiarazione di un politico, non si ferma sull’istante: nella sua mente sfilano altre dichiarazioni che il politico ha fatto due o tre o dieci anni prima, in totale contraddizione con quello che dice oggi. (…) Il guaio è che la stessa operazione verità Travaglio la compie anche con i giornalisti, e i giornalisti – non eletti, non abituati a esser criticati e a pagare– difficilmente sopportano.

Gli oppositori si sono tramutati in lobby

SE DOVESSI consigliare un principiante giornalista, gli direi che la cronaca e il giudiziario sono probabilmente il più eccelso allenamento:il cronista in particolare è il più vicino alla persona umana, e per questo le dittature hanno sempre esecrato la nera. E poi gli farei vedere come nasce un articolo di Travaglio: il tempo che spende nel cercare le fonti, nel capire, nel leggere verbali e sentenze, nel collegare l’ieri all’oggi, nell’accumulare archivi, nel formarsi infine un proprio giudizio senza badare a quel che dicono colleghi o politici. (…)

Il giornalista, il politico, la corte, le lobby: è il quadrilatero mortifero delle testate convenzionali (i giornali mainstream), che pretendono di essere benpensanti e hanno scordato il pubblico, ma mai scordano i politici, i potentati da cui in genere dipendono. Negli scritti di Travaglio i giornalisti sono esaminati con la stessa severità con cui viene analizzata la macchina politica. Hanno dimenticato la funzione cui erano destinati: quella di essere cani da guardia – watchdog – al servizio del lettore. Preferiscono sviare l’attenzione e intrattenere, più che informare. Sono diventati la prova vivente che dell’opposizione e dei contropoteri si può fare a meno. L’oppositore s’è tramutato in lobby. I giornalisti stessi sono non un quarto potere, ma uno dei tanti gruppi di pressione. Non aspirano al premio Pulitzer, ma a fabbricar politica al posto dei politici, appollaiati sulle loro schiene (…)

Il giornalista cittadino o undercover è visto con grande sospetto, specialmente in Italia ma non solo. Spesso in America gli rifilano un epiteto ingiurioso: il suo non sarebbe altro che gotcha journalism, sguinzagliato soprattutto in Rete per mettere in difficoltà il politico, l’opinione dominante, il comune sentire. Gotcha è una contrazione di “I got you”: t iho beccato, ti ho preso con le dita nella marmellata. Il giornalista veramente indipendente scandaglia il politico, e lo becca lì dove quest’ultimo meno se l’aspetta. (…)

In tanto Paradiso, è bello che ci sia un piccolo Mefistofele iniettatore di dubbi. Descartes lo chiamava malin génie: lo aiutava a pensare, a dubitare, dunque a essere. Come Marco appunto. È un genio astuto, un demone malizioso, e per di più – non sembra vero – mette di buon umore!

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