domenica 5 dicembre 2010

Crisi e stabilità, i timori di Napolitano


Le scuse per l'insultante sortita di Denis Verdini, con l'annuncio che nel giro di pochi minuti si sarebbe corretto, le ha anticipate l'altra notte un desolato Gianni Letta al segretario generale del Quirinale, Donato Marra. La rettifica c'è stata davvero, ma se possibile ancora più rozza. Infatti partiva da un confuso distinguo tra le prerogative del capo dello Stato (che il coordinatore del Pdl, bontà sua, ha detto di riconoscere) e l'eterno richiamo alla volontà popolare, ma era accompagnata dalla sostanziale conferma del suo «politicamente ce ne freghiamo».
Insomma, come direbbero a Venezia, è stato peggio «el tacòn del sbrego», per Giorgio Napolitano. Che non ha accettato di scendere sul terreno del battibecco e per ora si accontenta della nota ufficiosa diramata dal suo portavoce venerdì sera, in cui ha tentato di arginare le invasioni di campo, rivendicando il ruolo assegnatogli dall'articolo 88 della Carta costituzionale, contro ogni tentativo di pressione. La rincorsa dell'opposizione a disegnare ipotesi future e indicare nuove maggioranze e premier, così come il mantra-ultimatum della maggioranza su «fiducia o voto» con la pretesa di fissarne già la data, ha raggiunto un livello insopportabile per il Colle. E non tanto per una mera questione di gelosia sui poteri, quanto perché insistere - politicamente e mediaticamente - nelle profezie su ciò che potrà accadere dopo il fatidico 14 dicembre, è un modo obliquo per condizionare il presidente della Repubblica. Indicandolo magari come parte di un «complotto» (parola molto spesso evocata dallo stesso Cavaliere, anche secondo certi report di Wikileaks), qualora non facesse quel che ci si aspetta.

Scenari grotteschi e molto fastidiosi, per Napolitano. Il quale è sconcertato, oltre che dall'imbarbarimento del confronto (e gli fa effetto, tra l'altro, la faida in corso tra gli ex di Alleanza Nazionale), dalla scarsa presa di coscienza di quanto sta avvenendo all'euro sui mercati internazionali. Nel clima convulso dell'ormai vicina resa dei conti in Parlamento, i partiti quasi non ne parlano. Mentre lui ne ha scritto con preoccupazione ad altri otto capi di Stato europei, per coinvolgerli in un'azione che «dia fiducia» alla moneta unica. E ha poi convocato riservatamente nel suo studio sia il ministro Giulio Tremonti sia il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, per avere informazioni precise sulle incognite che possono gravare su di noi.

Una situazione contraddittoria disegnata con luci e ombre da un editoriale del Financial Times di mercoledì, titolato «La tempesta dell'eurozona si dirige verso l'Italia», che lo ha colpito. Perché, se da un lato il commento dell'autorevole giornale dava credito al nostro Paese, spiegando che il governo ha fatto il possibile per tenere a posto i conti, dall'altro lato segnalava la tara del vecchio debito pubblico che incide per il 118 per cento del Pil. Il commento scivolava anche sull'attuale deriva politica e, dopo aver lodato «l'esperto ministro Tremonti, che ha giocato bene una mano difficile» e descritto la sua personalità e le sue scelte come «fattori di stabilizzazione vitali nel mezzo delle tensioni politiche», concludeva con un vaticinio: «Che il premier colpito dagli scandali perda o no il suo posto, sembra certo che Tremonti manterrà il controllo delle finanze italiane, nel suo attuale incarico o come successore di Silvio Berlusconi».

È un'indicazione di peso, questa aspettativa di stabilità che evidentemente rispecchia il parere di una parte influente del mondo economico e finanziario. E si sa che riflette pure le ansie del capo dello Stato, che non a caso aveva chiesto - e ottenuto - che le forze politiche dessero precedenza alla manovra economica rispetto al verdetto sul futuro del governo. Il presidente teme che, magari approfittando della nostra fragilità politica, il Paese possa ritrovarsi investito da manovre speculative ed esposto a quel rischio di una relativa perdita di sovranità già sperimentata dalla Grecia e adesso dall'Irlanda. Per cui, nel caso che il 14 dicembre Berlusconi esca sfiduciato e si apra in modo formale la crisi, farà quanto gli è possibile per non chiudere traumaticamente la legislatura.

Tra le possibilità a sua disposizione, quella di affidare un mandato esplorativo alla seconda carica dello Stato, il presidente del Senato Schifani, esattamente come fece nel 2008 con Marini, dopo la caduta di Prodi. E il mandato, per lui o per chi venisse da lui indicato al termine dell'esplorazione, dovrebbe essere la ricerca dei numeri parlamentari per una soluzione non pasticciata o debole, cioè non una riedizione di certi vecchi esecutivi della Prima Repubblica che navigavano a vista. Un governo, magari di scopo e comunque di buon profilo, con Pdl e Lega dentro, per evitare improponibili ribaltoni. E con un premier in grado di arginare il progressivo deterioramento dell'economia e di fronteggiare eventuali minacce esterne.

Marzio Breda
05 dicembre 2010

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