Nuovi elementi per la procura di Palermo Sempre più evidente il dialogo tra istituzioni e mafia
di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza
Palermo
Dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, nella seconda metà del ’92, dentro i ministeri si cominciò a discutere della possibilità di applicare misure penitenziarie ridotte per i mafiosi “dissociati”, sulla scia della normativa utilizzata in precedenza per il terrorismo. Accanto al pugno di ferro di Pianosa e dell’Asinara, con la “deportazione” di centinaia di mafiosi al 41 bis, dopo l’eliminazione di Paolo Borsellino dentro le stanze del Governo si discuteva di una via alternativa, più “morbida”. È questo, si chiedono oggi gli inquirenti, l’esito della trattativa per placare la furia stragista?
Ascoltate le richieste di Cosa nostra
LA CLAMOROSA scoperta emerge dall’analisi della corposa documentazione recentemente acquisita negli uffici di via Arenula dalla procura di Palermo e adesso confluita agli atti dell’inchiesta sulla trattativa tra Cosa nostra e lo Stato. È il primo indizio – fanno notare in ambienti giudiziari – che il “papello” (il documento con le richieste di Cosa nostra, tra cui anche la “dissociazione”) consegnato l’anno scorso da Massimo Ciancimino ai pm di Palermo, venne tenuto in considerazione a vari livelli istituzionali. Non solo. È un ulteriore traccia che proverebbe come il foglietto con le dodici rivendicazioni, fatto pervenire dai boss a don Vito Ciancimino, sarebbe stato in grado di aprire un dibattito giuridico, non ufficiale, sulla possibilità di attuare un piano B, alternativo alla risposta repressiva dura di contrasto a Cosa nostra. Almeno per i mafiosi dissociati. E la “dissociazione” è stata al centro anche dell’ interrogatorio di Gianni De Gennaro, sentito mercoledì pomeriggio a Roma dal procuratore di Caltanissetta Sergio Lari e dal pm Nicolò Marino. Al capo del Dis è stato chiesto di confermare i ricordi del pentito Gaspare Mutolo e di un funzionario della Dia che datavano le prime discussioni sulla presa di distanza dei boss da Cosa nostra all’estate delle stragi siciliane. Per il pentito e il funzionario, però, si trattava del periodo tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Per De Gennaro le prime riflessioni sulla via pacifica allo scioglimento del vincolo associativo vanno spostate ad un periodo successivo. Di trattativa, invece, non hanno mai sentito parlare gli ex capi dello Stato Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi. Ai pm di Palermo Antonio Ingroia e Nino Di Matteo, che li hanno sentiti a Roma mercoledì mattina, risulterebbe che fu Scalfaro a disporre la rimozione di Nicolò Amato dal vertice del Dap proprio per la sua posizione “morbida” nei confronti del 41 bis. L’ex presidente non ha, sul punto, ricordi precisi, e i magistrati sentiranno nei prossimi giorni l’ex segretario del Quirinale Gaetano Gifuni. A Scalfaro è stato chiesto pure il perché della sostituzione del ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, a cui subentrò Nicola Mancino.
Quando Ciampi temeva il golpe
NEL CONFERMARE i suoi timori di un colpo di Stato (del quale Scalfaro non ha mai avuto sentore), Ciampi ha affermato che il suo governo fu il bersaglio della stagione stragista, visto che si insediò ad aprile ’93 e la prima bomba scoppiò in via Fauro, a Roma, un mese dopo. Il tritolo cessò di esplodere quando il premier si dimise, a dicembre del ’93. Su questo punto, i pm di Palermo hanno avviato una serie di indagini mirate per ricostruire tutte le posizioni espresse nel consiglio di Difesa del 27 luglio del ’93 per capire chi eventualmente fosse stato favorevole, dopo l’esplosione di quelle bombe, ad un atteggiamento “morbido” nei confronti di Cosa nostra. Il guardasigilli Giovanni Conso, infatti, dice di aver disposto “in solitudine” la revoca di oltre 500 provvedimenti di 41 bis, nel novembre ’93, nonostante il parere contrario, per la procura di Palermo, per la gran parte delle mancate proroghe. Nel libro Gli intoccabili Peter Gomez e Leo Sisti ricordano che Conso, prima di diventare ministro, aveva difeso il faccendiere Filippo Alberto Rapisarda (negli anni ’70 in affari con Marcello Dell’Utri), che per primo accusò Berlusconi di riciclare i miliardi di Cosa nostra.
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