di Furio Colombo
Il 14 dicembre sarà ricordato come il 25 luglio di Silvio Berlusconi. Dobbiamo ancora attraversare il periodo Salò del suo governo e già Bondi sta supplicando di non processarlo. Ma l’uscita di Berlusconi, che cercherà di fare il maggior danno possibile, ormai è cominciata. Per questo c’è chi, abituato a un legame forte, sta cercando il nuovo padrone, affinché l’Italia non resti orfana o venga occupata dalle brigate Bersani o, peggio, dalle formazioni Vendola. Ora, da alcuni giorni, il nuovo padrone è stato trovato. È Sergio Marchionne. Non è allegro, non conosce barzellette, è ombroso nella vita privata, sgarbato (lui dice franco) nei rapporti in pubblico. Sgarbato soprattutto con i dipendenti, che – in un’epoca di disoccupazione massiccia – non hanno scampo (e infatti molti tendono ad abbozzare) e questo sembra già un buon segno del vero capo, a cui si possono aggiungere l’idea ossessiva di essere il solo ad avere ragione e quella di essere il protagonista di una rivoluzione. “Per chi ha le scatole piene della gigantesca intermediazione di ceppo corporativo arriva un colpo storico (...) per ridefinire Occidente e capitalismo liberal democratico alla luce dei default del debito sovrano e del peso ormai insostenibile del nostro modello di sviluppo. Se, alla fine, questa linea aziendalista e produttiva di stampo americano passa nell’industria manifatturiera, si imporranno coerenze ad alto impatto politico”.
Salvatore della patria?
GIÀ, DOVE mettere la politica con cui il vecchio padrone faceva gran cassa e distraeva il Paese senza governare? Niente paura. Qui, al tempo della grande riforma, è l’azienda il motore che muove la vita. “In politica si decide pochissimo delle questioni di potere, giusto la politica estera e la questione energetica (…)”. Ma il caso Marchionne insegna: “Un imprenditore, da capo della più vecchia e forte impresa manifatturiera italiana, diventa padrone di due mondi e, in quanto tale, decide come si organizzerà il lavoro secondo una logica che ci sfugge completamente e che travolge Confindustria, sindacati confederali e concertazioni governative di vecchia scuola”. Poi si arriva alla conclusione, che è l’incoronazione del nuovo capo: “Se tra qualche anno diventeremo un Paese in cui non dico che si lavora, ma si lavoricchia in modo sensato (…) e in cui si guadagna e si consuma in modo proporzionato alla ricchezza sociale prodotta (…) dipende dall’ipotesi che il modello americano di relazioni sociali spazzi via la nostra comoda bardatura di convenienza e armonie prestabilite. Questa è politica, queste sono le relazioni di cui abbiamo bisogno”.
Molti lettori hanno già capito che sto citando due articoli de Il Foglio, 11 e 13 dicembre 2010, entrambi in prima pagina. E qualcuno di buona memoria deve aver pensato che la storia della rivoluzione di Marchionne non va così, che nella versione del Foglio ci sono salti e soprassalti e spostamenti fra prima e dopo che sono come ridarsi le carte al tavolo del poker finché ti vengono giuste. Sono spostati i fatti, le date, le sequenze causa-effetto della storia.
Qualcuno sa che sono stato per una decina d’anni presidente della Fiat americana e tramite sia verso governi americani che verso le aziende dell’auto di quel Paese (anni ’70-’80), compresa la lunga trattativa Fiat-General Motors. Ma la questione non è mettere a punto qualche dettaglio che non torna nella “scoperta dell’America” di Marchionne o nella travolgente danza del Foglio per il lavoro americano che spazza via l’Italia e la politica. Per quel che riguarda la politica italiana vista dall’operosa America, basta il durissimo editoriale del New York Times, 15 dicembre: “Non è il debito, è la corruzione che sta affondando l’Italia ad ogni livello di governo. Una successione di scandali oltraggiosi, sfacciati conflitti di interessi, leggi speciali fatte per proteggere il premier dai processi hanno sfiancato l’Italia, umiliato il discorso politico, svuotato le regole della legge”. Dite che tutto ciò, nel suo orrore, ormai è acqua passata, e che tutta l’attenzione adesso va dedicata alla rivoluzione americana di Marchionne? Prendiamo per buona l’ipotesi. Ciò rende ancora più rilevante la vera sequenza dei fatti. Potrebbe cambiarne il senso. Vediamo.
Panorama, 9 settembre 2010. Copertina: “Gli eroi bugiardi”. Ci sono le fotografie dei tre operai Fiat, Ragozzino, Lamorte, Pignatelli, licenziati da Marchionne per “sabotaggio” dopo aver scioperato, prontamente reintegrati dal giudice del lavoro, eppure – contro il giudice del lavoro – tenuti fuori dalla fabbrica.
Rimini, convegno di Comunione e liberazione. Marchionne dice ai giovani, che freneticamente lo applaudono: “Il problema è che in Italia manca la voglia e che abbiamo paura di cambiare. In questi giorni c’è una contrapposizione tra due modelli: uno difende il passato, l’altro vuole andare avanti”.
New York, 10 dicembre 2010. Marchionne incontra la presidente di Confindustria Marcegaglia .
Sceglierebbe
“SE MI COSTRINGETE a scegliere tra Fiat e Chrysler, scelgo Chrysler”. Strana e azzardata dichiarazione, se si ricordano i fatti.
Ciò che Obama, l’ingenuo, ha creduto è che la spinta del lavoro italiano e l’umanità del legame tra persona e lavoro avrebbero salvato
Mi permetterò una citazione dell’Avvocato Agnelli, a cui gli articoli del Foglio attribuiscono giustamente di avere iniziato e rafforzato il rapporto tra la sua azienda e gli Stati Uniti. Un amico americano, notando che tanti italiani si presentavano agli eventi newyorchesi carichi di titoli manageriali e onorifici, ha osservato: “Ma lei è solo presidente della Fiat!”. “E le pare poco?” ha risposto Agnelli.
Evidentemente aveva un’altra idea del “lavoricchio” italiano.
1 commento:
IN PAROLE POVERE MARCHIONNE LO STA METTENDO NEL C..O AGLI OPERAI ITALIANI, TANTO VA SUL VELLUTO, NON E' NE' IL PRIMO NE' IL SOLO.
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