MARIO DEAGLIO
E’ ormai diffusa la sensazione che, dalla finanza mondiale alle politiche nazionali, molti nodi stiano venendo al pettine; quando il nodo è troppo complesso, il pettine non lo scioglie ma strappa i capelli. In maniera analoga, i molti e intricati problemi di oggi potrebbero risolversi con «strappi», o discontinuità, alle regole, alle procedure, alle convenzioni, agli equilibri di potere economico e politico.
Tutto ciò vale, prima di tutto, per la finanza internazionale, squassata da crescenti manifestazioni di debolezza e singolarmente incapace di trovare una via d’uscita per conto proprio.
E’ possibile leggere queste manifestazioni di debolezza, e, in particolare, quella dell’euro, come il risultato di due evoluzioni parallele. La prima è di tipo finanziario e ha alla base l’incredibile incapacità dei grandi istituti bancari internazionali di comprendere la natura e le dimensioni della natura della crisi in atto. Dopo essere stati salvati dal collasso - soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna - grazie all’intervento dei governi, con risorse finanziarie che dovranno essere restituite da generazioni future di contribuenti, hanno ripreso a fare le stesse operazioni di prima, come prima, in assenza di controlli adeguati. Si è creata così un’insanabile contraddizione tra gli esami severissimi cui sono sottoposti i conti pubblici di paesi come Irlanda, Portogallo e Grecia e i controlli leggeri e molto tolleranti sulle grandi banche internazionali i cui conti hanno spesso dimensioni superiori a quella dei bilanci pubblici dei paesi predetti; tra banche alle quali le autorità pubbliche hanno generosamente prestato, senza precisi limiti di tempo, e paesi dai quali si pretendono misure socialmente durissime in cambio di prestiti spesso esosi e relativamente scarsi.
In questa situazione generale si colloca la particolare evoluzione negativa dell’Europa che ha inizio tra il maggio e il giugno 2005, quando gli elettori francesi e olandesi bocciarono nettamente, in due referendum, il progetto di costituzione europea. Come costituzione forse non era un granché, ma in questo modo la creazione di uno «Stato» europeo è stata congelata e l’Europa si è trovata all’appuntamento della crisi come un pachiderma impotente e cieco. Impotente perché privo degli strumenti necessari per governare un grande sistema economico-finanziario, com’è quello dell’euro; cieco perché all’Europa mancano non solo gli strumenti per reagire ma anche quelli per conoscere la vera consistenza dei prodotti finanziari che contengono titoli «infetti», ossia provenienti dai Paesi dell’area euro in particolare difficoltà. Tutto ciò costringe a laboriose e incerte riunioni a Bruxelles con troppi partecipanti e troppi rinvii su argomenti che richiederebbero decisioni rapide e sicure.
A una simile situazione di debolezza si aggiunge la crescente abitudine dei vertici europei di diffondere messaggi di pericolo incombente sull’euro, incuranti del fatto che i mezzi d’informazione inevitabilmente amplificano - e talora distorcono - questi messaggi, accentuando le paure degli operatori e accrescendo i pericoli per il sistema. Di conseguenza aumenta la preoccupazione per il cambio in discesa dell’euro, anche se i livelli ai quali è ora quotato erano ritenuti soddisfacenti qualche mese fa e, per rifinanziare i titoli pubblici in scadenza, i paesi in difficoltà devono pagare un «premio per il rischio» ormai a livelli record, sottraendo così risorse alla spesa pubblica.
La debolezza dell’euro è almeno in parte frutto di questa situazione mentre sussistono interrogativi più sostanziali sulla tollerabilità sociale delle manovre finanziarie imposte a Grecia e Irlanda, e forse in un prossimo futuro anche a Portogallo e Spagna; a questi Paesi viene prescritto di rientrare dal proprio eccesso di debito in 3-4 anni, con inevitabile disoccupazione e una generale, grave sofferenza sociale. Se si diffondesse la convinzione - giusta o sbagliata - che tutto ciò avviene in primo luogo per rafforzare i bilanci delle grandi banche, potremmo trovarci di fronte a un rigetto politico di manovre di risanamento troppo dure.
In un simile, burrascoso contesto l’Italia si trova - non si sa per quanto tempo ancora - in una zona di relativa calma. E questo sia perché il debito pubblico italiano, per quanto elevato, è molto stabile sia perché le banche italiane non sono entrate, o sono entrate in maniera del tutto marginale, nel girone caldo della finanza internazionale e per conseguenza l’esposizione italiana al rischio dei quattro Paesi sopra indicati è minima. Dopo il recente, lusinghiero risultato di un’asta importante di titoli del debito pubblico italiano i mercati finanziari hanno però manifestato dubbi e preoccupazioni, forse collegabili all’incertezza - che ha del grottesco - della situazione politica del Paese. E qui il cerchio si chiude: per motivi di finanza internazionale, la crisi politica di fatto in cui si trova l’Italia non può essere aperta al buio né esser gestita come se il debito pubblico italiano non esistesse e non fosse, per circa metà, in mani estere. E’ difficile sciogliere questi nodi sempre più aggrovigliati ma qualche tentativo deve essere fatto. Prima che questi vengano sciolti strappando i capelli e procurando un male non necessario.
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